Un po’ di Cuore a scuola non
fa male
La prima volta che ho letto il libro Cuore
avevo otto anni: era il regalo della mia maestra per la Prima Comunione. Lei
sembrava proprio nata dalla penna di Edmondo De Amicis, perché era buona e
paziente, aveva un modo pacato di rapportarsi con noi alunne, che considerava
delle figlie, visto che lei non aveva provato la gioia della maternità , ma
soprattutto perché era capace di infondere quei buoni sentimenti che non
passano mai di moda.
Il racconto di Enrico, il protagonista del libro Cuore,
mi appassionava e mi catapultava in una scuola in cui si esaltavano i valori
della famiglia, della patria, del rispetto e della solidarietà. Eppure, anche
allora non mancavano le criticità: invidia, superbia, reiterati atti vessatori
nei confronti di coetanei, che oggi definiremmo “bullismo”, ma c’era il mondo
degli adulti pronto a redarguire, a insegnare, a dimostrare, con l’esempio, la
sua autorevole capacità di indirizzare le menti dei bambini verso finalità
positive.
Ho riletto più volte il libro Cuore, l’ho
proposto ai miei alunni, ho scritto una drammatizzazione rappresentata con
successo e ho riflettuto sul fatto che questo libro riesce comunque a
coinvolgere, nonostante sia stato anche criticato perché giudicato retorico e
melenso.
Recenti e deprecabili episodi verificatisi nelle
scuole, in cui docenti e alunni sono spesso vittime o carnefici, mi hanno
indotto a riprendere in mano questo testo ”datato”, perché oggi più che mai
nella scuola è necessario parlare di buoni sentimenti, se non si vuole rimanere
schiacciati dall’arroganza e dalla volgarità e se non si vogliono invertire i
ruoli istituzionali. Sono convinta che per restituire alla scuola la sua
dignità è necessario ridarle autorevolezza attraverso valori vissuti piuttosto
che propinati e, a costo di apparire anacronistica, propugno l’ideale di una
scuola come luogo sacro, come palestra di vita nella quale la vita non è
raccontata ma vissuta e nella quale si gettano irrimediabilmente le basi del
nostro futuro.
Ho perciò pensato di riproporre le pagine più
significative del libro Cuore anche agli alunni di questa nuova
generazione, i cosiddetti “nativi digitali”, pagine a mio avviso ancora
attuali. Naturalmente mi sono avvalsa, in questa proposta didattico-educativa,
di strategie nuove, quali il role play, il debate, la riscrittura, il lap
book…Ho deciso di socializzare la mia esperienza didattica perché la
risposta dei miei alunni di classe quarta è stata entusiastica: in poco tempo
si sono appassionati al racconto di Enrico Bottini, trovando analogie con
situazioni vissute in classe, caratterizzando i vari alunni e soprattutto
riflettendo sui valori che il libro intende comunicare. In particolare si sono
appassionati ai racconti mensili e ai piccoli eroi del quotidiano capaci ancora
di suscitare emozioni.
Per me è stata una scommessa, anche se in cuor mio
sapevo che ai bambini il libro Cuore sarebbe piaciuto, perché i bambini,
in fondo, non sono cambiati . Un po’ di “Cuore” non fa male in una società che
rischia di autodistruggersi, ammaliata da falsi eroi e da false chimere. Lo
storico Rosario Villari ha definito il libro Cuore una pietra miliare
della cultura e della storia della nazione italiana, riconoscendogli “un alto
valore pedagogico nazionale”.
Credo nel valore dei buoni sentimenti e nella loro
perenne attualità. Occorre partire dal cuore per valorizzare un progetto
educativo che diversamente potrebbe fallire e quando, alla fine del percorso,
ho invitato i bambini, tramite un debate, a schierarsi pro o contro un
libro che molti classificano “fuori moda”, ho potuto costatare, confesso con piacere,
che molti hanno espresso il loro consenso, ravvisandone l’attualità e
riconoscendone la bellezza.
Un pensiero va alla mia maestra, figura di educatrice
che mi è rimasta nel cuore e che, assieme a mia madre, mi ha fatto amare e
scegliere la meravigliosa professione alla quale hanno dedicato con passione la
loro vita.
Autrice: Aida Dattola, laureata in Pedagogia, è insegnante nella
scuola primaria.
copyright
© Educare.it - Anno XIX, N. 7, Luglio 2019
copyright
© Educare.it - Anno XIX, N. 7, Luglio 2019
Una mitica lezione di ospitalità
Nel lessico quotidiano parole come “accoglienza” e “ospitalità” sono ormai ricorrenti, perché lo scenario mondiale è caratterizzato da notevoli flussi migratori di profughi che chiedono di essere accolti, sfuggendo a situazioni estreme vissute nei loro Paesi d’origine, e perché, in senso più lato, ogni essere umano ha bisogno di vivere in relazione con l’altro, diventando suo “ospite”.
Cosa significa essere ospitali ce lo insegna la mitologia greca, che il poeta latino Ovidio riprende nell’ottavo libro delle Metamorfosi, raccontando la delicata storia di Filemone e Bauci. Erano, questi, due anziani coniugi che vivevano miseramente in una casupola, uniti da un tenero vincolo d’amore.
Un giorno Zeus, padre degli dei, decise di scendere dall’Olimpo assieme al figlio Hermes per chiedere ospitalità agli uomini. Recatisi in Frigia, bussarono a tante porte, ma nessuno fu disposto ad accoglierli. Solo i due anziani coniugi aprirono la porta della loro povera casa e accolsero gli ospiti in modo gentile, rifocillandoli con il poco cibo a loro disposizione, ignari di avere a che fare con Zeus in persona. Quando Filemone scoprì che alla sua tavola era seduto proprio il padre di tutti gli dei, pensò di sacrificare l’unico tesoro in suo possesso, un’oca, per onorarlo nel modo dovuto. Ma Zeus ne impedì il sacrificio e, per compensare i padroni di casa, riconoscente, chiese loro di esprimere due desideri. Promise, inoltre, che li avrebbe portati con sé sull’Olimpo, risparmiandoli dal diluvio che avrebbe scatenato sul loro paese, per punire gli uomini per la loro mancanza di ospitalità. I due coniugi chiesero di poter servire gli dei per tutto il resto della loro vita e di poter morire insieme. La loro casa si trasformò quindi in un tempio e Filemone e Bauci vissero ancora per tanti anni servendo gli dei, come avevano richiesto, e morirono insieme, abbracciati, trasformandosi uno in una quercia e l’altra in un tiglio.
Per i Greci, come insegna questo mito, l’ospitalità era sacra, perché accogliendo un ospite si pensava si potesse accogliere un dio. Perciò, essere ospitali non era un dovere, ma un vero e proprio onore tanto che, alla sua partenza, all’ospite venivano offerti dei doni e stabilendo un legame tra le famiglie. Ancora una volta la civiltà antica riesce a fornirci una lezione “mitica” e a farci comprendere che, anche se il tempo passa, certi valori conservano inalterata la loro importanza. Non a caso, in Grecia, con il termine xenos si indicava lo straniero, ma “xenos” era anche l’ospite.
Aida Dattola
Pubblicato su Educare.it il 6 luglio 2018
Insegnare la Grammatica: Esistono dei Modi Migliori da quelli Classici
A chi non piacerebbe fare un
viaggio per esplorare territori sconosciuti? La voglia di conoscere nuove
realtà è insita nell’uomo e, alla luce di questa innegabile verità, mi è venuta un’idea. Perché non
aiutare i miei alunni a scoprire le regole della lingua italiana
accompagnandoli, con la guida di una simpatica fatina, in un fantastico mondo abitato da simpatici personaggi ? L’esperienza maturata in tanti
anni di insegnamento mi ha fatto riflettere sulla necessità di suscitare negli
alunni la motivazione ad apprendere creando aspettative, innescando in loro il desiderio di conoscere e di produrre
attraverso l’attività laboratoriale. Ne è scaturito il progetto “In viaggio con
Fiabolina”, attivato durante le ore di laboratorio linguistico. La storia è
iniziata così: un giorno è entrato in classe un collaboratore con una
cartolina, che i bambini hanno osservato con curiosità: la scriveva, dal Mondo
della Lingua Italiana, Fiabolina, la fatina
protagonista del libro di cui avevo loro parlato, che li invitava a
intraprendere con lei questo viaggio. Dapprima increduli, poi entusiasti, hanno
deciso che avrebbero accettato l’invito e così hanno imparato a conoscere la protagonista
di questa meravigliosa avventura. Assieme a lei hanno fatto amicizia con Il
Mago Accento, che li ha aiutati a capire l’uso di un magico segnetto che lui
utilizzava volentieri, il robot Sillabino, che li ha sollecitati a parlare
sillabando, dettando le regole della corretta divisione, la fata Raddoppina,
che ha insegnato loro l’uso delle doppie; inoltre, hanno visitato l’Isola dei
Suoni Affini, dove la B veniva confusa con la D, la F con la V…
Il viaggio nel Regno
dell’Ortografia li ha portati a scoprire il paese di Soqquadro, dove regnava
una gran confusione, il paese della Punteggiatura, dove i segni di
punteggiatura erano dei segnali stradali,
a intrattenersi con la signora
Acqua e con l’ H Bislacca: da tutte queste
opportunità e da questi incontri hanno imparato, come Fiabolina, le regole
ortografiche in modo ludico e coinvolgente. Il “Maestro” Gianni Rodari
diceva:-Perché i bambini devono imparare piangendo ciò che possono imparare
ridendo?-Facendo tesoro del suo insegnamento ho permesso ai miei bambini di
sorridere felici nell’accogliere in classe il robot Sillabino e, attraverso un
role play, farlo rivivere nella conversazione con i compagni di classe, di
ricostruire l’Isola dei Suoni Affini con un collage e di realizzare un
biglietto pop up per animare il Mago Accento.In poche parole, in classe è stato
attivato un percorso di didattica inclusiva, perché gli alunni hanno “fatto lezione” sostituendosi all’insegnante, hanno effettuato il
cooperative learning per drammatizzare varie situazioni e hanno realizzato dei lavoretti per
“costruire” il diario di bordo della loro esperienza di viaggio.Ma,
soprattutto, hanno imparato le regole ortografiche in modo sereno . Artefici
del loro sapere, si sono librati in una dimensione fantastica con entusiasmo.
Spesso, per ricordare una regola, fanno riferimento al personaggio che gliel’ha
insegnata…Per far consolidare quanto
hanno appreso ho utilizzato l’eserciziario allegato al libro, nel quale hanno
studiato con Fiabolina. Per verificare le competenze acquisite ho elaborato un gioco dell’oca con la fatina
e, ancora una volta in modo ludico, ho rilevato che le finalità previste nel mio
progetto sono state pienamente raggiunte!.
Pubblicato su YOUREDUCACTION il26 novembre2016Insegnare, tra meraviglia e personalizzazione
La conoscenza umana è nata da uno stupore iniziale che ha proteso l’uomo verso mete sempre più alte, capaci, ogni volta, di suscitargli vere e proprie emozioni. A chi, come noi, vive quotidianamente l’avventura scolastica, sarà capitato più volte di leggere negli occhi dei bambini lo stupore di fronte alla novità, a una piccola conquista o davanti a un “prodotto” finito. Sarà pure capitato di sentire un applauso finale dopo una lezione particolarmente coinvolgente e sentirsi felici di aver comunicato emozioni, mai fine a se stesse, ma capaci di innescare ulteriori meccanismi di motivazione ad apprendere.
Creare aspettative e sollecitare la domanda motivazionale degli alunni è una dinamica indispensabile dell’insegnamento e compito della scuola è creare le condizioni ottimali affinché ciò si realizzi. Pertanto è necessario personalizzare l’insegnamento, prestando attenzione agli aspetti interattivi e connettivi delle esperienze cognitive. Fondamentale è il rapporto tra docenti ed alunni, che deve essere caratterizzato dall’accoglienza, dalla propositività, dalla comunicatività e dalla ricerca di motivazioni. Ogni docente deve rappresentare per gli alunni un modello da seguire ed imitare (modeling); essere guida, compagno di viaggio e sostegno (mentoring) e saper porsi in una relazione diretta e personale (tutoring).
La personalizzazione diventa dunque uno degli indicatori maggiormente significativi della qualità dell’insegnamento. Motivazioni reali, relazioni logiche e soluzioni di problemi rappresentano gli elementi imprescindibili di ogni procedimento didattico.
Personalizzare l’insegnamento significa trovare un punto d’incontro significativo tra i “metodi” e gli “stili cognitivi”, che rappresentano l’elemento dinamico, soggettivo, variabile, ricercando le strategie più idonee per raggiungere la meta prefissata e utilizzando i linguaggi più adatti, per soddisfare la sete di sapere degli alunni. Ciò che più conta, quindi, non è tanto stabilire misure standardizzate sul loro rendimento, quanto identificare i punti di forza e i lati deboli di ciascuno: lo strumento più adatto a tal fine è l’osservazione continua in una varietà di situazioni e di condizioni, per rilevare vari comportamenti ed abilità .
L’attenzione va focalizzata su modi, stili, livelli di comprensione più che sull’immagazzinamento mentale dell’informazione. La personalizzazione comporta una flessibilità operativa calibrata sulle potenzialità e sulle richieste del singolo.
La scuola, per rispondere in modo adeguato alle pressanti richieste di una società in rapida evoluzione, deve accompagnare e sostenere gli alunni in un processo di crescita che li aiuti a diventare uomini liberi e capaci di gestire in modo autonomo il futuro. La scuola dell’ autonomia, recependo le istanze più significative del mondo contemporaneo, dovrebbe garantire percorsi formativi personalizzati, considerando l’alunno nella sua dimensione di persona unica ed irripetibile, portatrice di valori. E proprio questa ”esclusività” del rapporto educativo deve garantire ad ognuno lo stupore di fronte alla novità di un sapere che è costante ricerca e costruzione personale, che rifugge da schemi stereotipati e da “pacchetti” preconfezionati per diventare possibilità di offrire risposte nuove e significative a problematiche emergenti. La conoscenza deve produrre un cambiamento dentro di noi e perché ciò avvenga deve essere pregnante, suscitando le stesse emozioni che i nostri progenitori provarono “scoprendo” il mondo circostante e mai spegnendo, con inutili o sterili pseudosaperi, l’ansia di crescita insita in ognuno di noi.
Una scuola laica, pluralista e democratica consente all’alunno di utilizzare gli strumenti culturali ed emotivi come risorse. La scuola dell’autonomia garantisce a ciascun alunno la possibilità di esprimere le proprie potenzialità, garantendo percorsi personalizzati e perciò proficui, perché in grado di tradurre le capacità personali in competenze in un contesto formativo stimolante e vario, in cui la logica del sapere è coniugata con quella del saper essere e del saper fare. Perciò trovarsi in un laboratorio e sentire un alunno esclamare con gioia, dopo aver completato la sua casetta realizzata con la tecnica dell’origami: «Guarda, maestra, l’ ho fatta io!», significa aver perseguito un obiettivo fondamentale del nostro insegnamento, che è quello della conquista personale del sapere, in cui il ruolo del docente è quello del facilitatore procedurale, che indirizza senza imporsi e stimola senza prevaricare.
Quando i bambini fanno: ”Oh, che meraviglia!” possiamo esser certi di vederli crescere, perché il mondo, con le sue bellezze e le sue contraddizioni, non finirà mai di stupirli: a noi il compito di insegnare a guardarlo con immutato stupore!
copyright © Educare.it - Anno XV, N. 4, Aprile 2015
Insegnare il silenzio a scuola
di Aida Dattola, su www.educare.it (3/10/2011)
In un mondo dominato dalle chiacchiere, a volte inutili, altre volte dannose, è ancora possibile parlare del silenzio, o questo deve essere considerato appannaggio di pochi eletti anacoreti che scelgono di ritirarsi in luoghi deserti, fuggendo dalla banalità della vita quotidiana?
Un vecchio proverbio recita: “Il silenzio è d’oro”, probabilmente perché, in determinate situazioni, può diventare la migliore forma di comunicazione: attraverso il silenzio, infatti, è possibile guardare meglio dentro noi stessi e ascoltare gli altri, migliorando le nostre relazioni sociali. Chi vive l’esperienza didattica sa quanto oggi sia importante e difficile educare all’ascolto i nostri bambini, impegnati piuttosto a parlare. La classe, piccola struttura sociale, diventa spesso un luogo privilegiato di chiacchiere, tanto che per noi docenti la conquista del silenzio appare come pura utopia.
Eppure, a volte, capita che gli stessi bambini, forse desiderosi di una pausa al loro logorroico periodare, rivolgano alle insegnanti la richiesta: "Maestra, facciamo il gioco del silenzio?". A me è capitato spesso e li ho assecondati con piacere, pregustando momenti di serenità. Un giorno, per caso, ho scoperto che del gioco del silenzio aveva parlato addirittura Maria Montessori e ho voluto approfondire le mie conoscenze in merito.
La lezione dell’insigne pedagogista è significativa, perché per lei non si tratta di un espediente per favorire uno stato di quiete, ma di un vero e proprio esercizio, che sospende le normali attività e porta a controllare ogni minimo movimento per arrivare a un livello superiore, in grado di staccare il bambino dai rumori del mondo esterno.
Lei stessa racconta com’è nata questa sua riflessione, tradotta successivamente in prassi didattica. Un giorno si trovava in classe e teneva in braccio un bambino che dormiva; ha invitato gli alunni a osservarlo: era così tranquillo e sereno che addirittura potevano percepirne il respiro! Li ha sollecitati al silenzio e così loro, attratti dalla novità del momento, hanno evitato ogni rumore.
Che esperienza straordinaria! Si potevano avvertire il ticchettio della pioggia e il canto di un uccello lontano… Era, per quei bambini, un’attività davvero coinvolgente, che avrebbero ripetuto volentieri.
Montessori suggerisce di ottenere, in una prima fase, il silenzio del gruppo: la maestra darà l’esempio, mantenendo un comportamento discreto o compiendo, in modo misurato, dei semplici gesti che lo richiamino; dapprima solo pochi bambini resteranno colpiti e la imiteranno, ma in modo graduale tutti riusciranno a conquistarlo. Successivamente, l’insegnante può sussurrare il nome dei bambini dal fondo della stanza, da dietro la porta o dal giardino, naturalmente chiamando per primi coloro che fanno più fatica a stare in silenzio.
Dopo il silenzio di gruppo si può arrivare a quello del singolo. Quando ne avverte il bisogno, il bambino può preparare il materiale necessario (un materassino, un cartellino con la scritta “Silenzio”, o altre immagini utilizzate dall’insegnante), una clessidra e un cuscinetto ripieno di lavanda per gli occhi; dopo aver disposto il materiale, si sdraia e si posiziona il cuscino sugli occhi. I simboli utilizzati servono per gli altri bambini, ai quali si richiede che non disturbino il compagno.
Imparando a scoprire il valore del silenzio, i piccoli lo cercheranno per soddisfare la loro voglia di ascolto, che è un ottimo mezzo per imparare l’autocontrollo e per stabilire relazioni positive con gli altri. Certo, ogni insegnante può utilizzare vari espedienti per il perseguimento dell’obiettivo prefissato; può raccontare una storia, come quella del mago Silenzio che arriva in classe e avvolge con il suo mantello magico tutti i bambini o focalizzare la loro attenzione su un suo gesto (ad esempio quello di toccarsi la punta del naso), invitando la classe ad imitarlo….naturalmente con la bocca chiusa! Insomma, si può imparare il silenzio considerandolo una vera e propria attività scolastica.
Credo che la lezione di Maria Montessori sia oggi quanto mai attuale, perché per imparare a comunicare è necessario saper ascoltare e, per farlo, occorre eliminare le parole inutili e stare un po’ a contatto con sé stessi, per far proliferare, dal silenzio, le parole migliori.
In un mondo dominato dalle chiacchiere, a volte inutili, altre volte dannose, è ancora possibile parlare del silenzio, o questo deve essere considerato appannaggio di pochi eletti anacoreti che scelgono di ritirarsi in luoghi deserti, fuggendo dalla banalità della vita quotidiana? Un vecchio proverbio recita: “Il silenzio è d’oro”, probabilmente perché, in determinate situazioni, può diventare la migliore forma di comunicazione: attraverso il silenzio, infatti, è possibile guardare meglio dentro noi stessi e ascoltare gli altri, migliorando le nostre relazioni sociali.
Chi vive l’esperienza didattica sa quanto oggi sia importante e difficile educare all’ascolto i nostri bambini, impegnati piuttosto a parlare. La classe, piccola struttura sociale, diventa spesso un luogo privilegiato di chiacchiere, tanto che per noi docenti la conquista del silenzio appare come pura utopia.
Eppure, a volte, capita che gli stessi bambini, forse desiderosi di una pausa al loro logorroico periodare, rivolgano alle insegnanti la richiesta: "Maestra, facciamo il gioco del silenzio?". A me è capitato spesso e li ho assecondati con piacere, pregustando momenti di serenità. Un giorno, per caso, ho scoperto che del gioco del silenzio aveva parlato addirittura Maria Montessori e ho voluto approfondire le mie conoscenze in merito.
La lezione dell’insigne pedagogista è significativa, perché per lei non si tratta di un espediente per favorire uno stato di quiete, ma di un vero e proprio esercizio, che sospende le normali attività e porta a controllare ogni minimo movimento per arrivare a un livello superiore, in grado di staccare il bambino dai rumori del mondo esterno.
Lei stessa racconta com’è nata questa sua riflessione, tradotta successivamente in prassi didattica. Un giorno si trovava in classe e teneva in braccio un bambino che dormiva; ha invitato gli alunni a osservarlo: era così tranquillo e sereno che addirittura potevano percepirne il respiro! Li ha sollecitati al silenzio e così loro, attratti dalla novità del momento, hanno evitato ogni rumore.Che esperienza straordinaria! Si potevano avvertire il ticchettio della pioggia e il canto di un uccello lontano… Era, per quei bambini, un’attività davvero coinvolgente, che avrebbero ripetuto volentieri.
Dopo il silenzio di gruppo si può arrivare a quello del singolo. Quando ne avverte il bisogno, il bambino può preparare il materiale necessario (un materassino, un cartellino con la scritta “Silenzio”, o altre immagini utilizzate dall’insegnante), una clessidra e un cuscinetto ripieno di lavanda per gli occhi; dopo aver disposto il materiale, si sdraia e si posiziona il cuscino sugli occhi. I simboli utilizzati servono per gli altri bambini, ai quali si richiede che non disturbino il compagno.
Credo che la lezione di Maria Montessori sia oggi quanto mai attuale, perché per imparare a comunicare è necessario saper ascoltare e, per farlo, occorre eliminare le parole inutili e stare un po’ a contatto con sé stessi, per far proliferare, dal silenzio, le parole migliori.
Il latino nella scuola primaria
Un’ esperienza significativa, vissuta in una classe quinta di una scuola primaria,
mi consente delle riflessioni sull’approccio alla lingua latina nella scuola primaria.
Per proiettarci in modo proficuo nel futuro non possiamo prescindere dalle nostre radici,
cioè dal patrimonio esperienziale accumulato nel corso del tempo, consolidato
e definito dalla tradizione ed i cui effetti riscontriamo nel quotidiano.
E la lingua, che per sua stessa natura è in continua evoluzione e si avvale
dei termini del passato per utilizzarli, magari modificandoli, in nuovi contesti,
trae linfa vitale dal ceppo che le ha dato vita e che deve pertanto
essere conosciuto ed apprezzato. Per amare la nostra lingua nazionale
e per migliorare le nostre competenze linguistiche si rende pertanto necessario
conoscere la lingua parlata di nostri padri, il latino.
Il progetto “Maiorum sermo” è stato elaborato con la specifica motivazione
di suscitare negli alunni di quinta elementare il desiderio di esplorare i segreti e i legami
che ancora uniscono, dopo tanti secoli, l’italiano al latino, al fine di garantire maggiore
duttilità espressiva e di aiutarli, così, a “crescere”.
Don Milani sottolineava l’importanza e la centralità della lingua quale strumento
che consente alla persona di comunicare, rielaborare e trasmettere esperienze e conoscenze
e di agire nel proprio contesto di vita, interpretandolo e modificandolo.
“Perché è solo la lingua che fa eguali. Eguale è chi sa esprimersi e intende
l’ espressione altrui. Che sia ricco o povero importa poco. Basta che parli.”
La padronanza linguistica, infatti, ci consente di arricchire il nostro bagaglio culturale
e di migliorare i rapporti con gli altri.
La lingua è, dunque, un patrimonio per chi la possiede e a maggior ragione lo è il latino,
espressione di una civiltà che è stata e continua ad essere maestra e guida di ogni civiltà.
Gli obiettivi che il progetto si prefigge sono i seguenti:
Per il perseguimento di tali obiettivi è utilizzata una metodologia attiva,
di ricerca e di confronto, atta a suscitare la motivazione ad apprendere
attraverso un rapporto di connessione fra la lingua italiana e il latino.
Attraverso la lettura di semplici testi, la ricerca, l’apprendimento mnemonico di parole,
massime e proverbi e schede di analisi linguistica si favoriscono momenti di contatto
fra le due lingue e, senza trascurare la dimensione ludica, si consente ai bambini di trovare
affinità e di “giocare” con le parole.
Particolarmente significativo è l’approccio con “le parole della grammatica”.
Spiegare, ad esempio, che il termine aggettivo deriva dal latino adiectivus,
che significa “aggiunto” è utile per un percorso di conoscenza grammaticale.
ESEMPIO
Aggettivo deriva dal latino adiectivus, che significa aggiunto. Infatti, l’aggettivo si aggiunge al nome per qualificarlo, per indicarne il possesso,
la quantità, la vicinanza o la lontananza.
I contenuti di studio sono quelli della civiltà latina: la famiglia, i giochi, le feste,
i mesi dell’anno, i giorni della settimana ecc...; dalle parole latine si ricavano i termini
italiani in uso, dei quali si spiegherà il significato.
L’arricchimento lessicale è assicurato: gli alunni si divertono ad utilizzare le parole apprese
in nuovi contesti e a ricercarne di nuove, come accade, per esempio, con i composti del verbo “fero”.
Le prove di verifica, realizzate in itinere ed alla fine del percorso, sono costituite da cloze,
schede di analisi linguistica, prove del tipo vero/falso.
I dati emersi dalle prove di verifica relative al progetto attivato rivelano che gli alunni
hanno migliorato le loro competenze linguistiche , hanno arricchito il loro bagaglio
lessicale ed hanno utilizzato i termini latini in uso nella nostra lingua con maggiore facilità,
scoprendo neologismi e giocando con la lingua.
ha conseguito un master in didattica della lingua italiana.
|
copyright © Educare.it - Anno VI, Numero 10, Settembre 2006
Un ricordo di Gianfranco Zavalloni
Ci sono delle persone che incontri casualmente nel tuo cammino e lasciano un segno indelebile e che t’insegnano, con il loro esempio e le loro qualità, più delle centinaia di libri che hai letto o degli insegnamenti che hai ricevuto in tanti anni di studi. A me è successo con Gianfranco Zavalloni.
Anni fa ho scoperto, navigando su Internet alla ricerca di esperienze didattiche significative, un sito molto interessante gestito dal dirigente scolastico Gianfranco Zavalloni. Lui aveva pubblicato, tra l’altro, un “Manifesto dei diritti naturali dei bambini e delle bambine” e desiderava tradurlo nei vari dialetti regionali. Ho offerto la mia collaborazione per la realizzazione del suo progetto inviando una mail e ho subito ricevuto la sua entusiastica approvazione. Mi chiedeva di mettermi in contatto con lui per stabilire degli accordi...e così è stato.
Successivamente ho letto un suo libro sul teatro dei burattini e ho capito che avevo a che fare con una persona speciale. Lui era un pedagogista che non disdegnava le sue origini contadine, anzi le enfatizzava nella sua proposta degli orti di pace nelle scuole; era una persona ricca di cultura, ma povera di quella boria spocchiosa che spesso travolge chi si ritiene detentore di chissà quali verità.
Una persona semplice e tranquilla, ma un vulcano d’idee e di creatività, che manifestava nei suoi disegni, nei suoi spettacoli con i burattini, nella sua voglia di crescere e di raccontare le esperienze realizzate in sedici anni di insegnamento nella scuola dell’infanzia.
Una persona semplice e tranquilla, ma un vulcano d’idee e di creatività, che manifestava nei suoi disegni, nei suoi spettacoli con i burattini, nella sua voglia di crescere e di raccontare le esperienze realizzate in sedici anni di insegnamento nella scuola dell’infanzia.
Certo andava un po’ controcorrente, perché in un mondo dominato dalla tecnologia e dalla corsa affannosa al successo e alla competizione, in un mondo, insomma, che va di fretta, ha avuto la felice e "trasgressiva" intuizione di proporre un rallentamento. Il suo libro ”La pedagogia della lumaca” evidenzia proprio questa voglia di concepire la conoscenza come una conquista lenta, nata dal contatto con la realtà e dalla lettura serena del mondo. Alla scrittura multimediale contrapponeva la calligrafia, quella che, quando ero bambina, la mia maestra m’ insegnava ad amare, vergando riccioli e volute come esercizio di bellezza, e che mi è servita tutte le volte che ho dovuto comunicare per iscritto a una commissione giudicatrice le mie idee, perché è vero che i contenuti sono fondamentali, ma è pur vero che un testo scritto con bella scrittura rende più piacevole la lettura e dispone benevolmente il lettore.
Controcorrente era anche il desiderio del dirigente Zavalloni di abolire i voti per evitare la competizione e per suscitare negli alunni il piacere dello studio solo per il gusto della conoscenza...
Anche in Brasile, dove ha lavorato dal 2008 al 2012 come responsabile dell’Ufficio scuola del Consolato d’Italia di Belo Horizonte, aveva portato le sue idee, riscuotendo notevole successo.
Il mondo è piccolo davvero e un giorno, parlando di lui con una collega scoprivo con piacere che quanto avevo intuito dai suoi scritti e dalle sue parole corrispondeva a verità: lei lo aveva conosciuto quando dalla Calabria era andata a insegnare in Emilia Romagna. Confermava che fosse una bella persona, creativa, dedita alla scuola e capace di instaurare un rapporto sereno e dialettico con i docenti.
«È vero maestro non quello che ti dice qual è la strada da percorrere, ma colui che ti apre gli occhi e ti fa vedere le tante strade sulle quali puoi liberamente inoltrarti» , così diceva, e con la sua pedagogia semplice e gentile sicuramente ha permesso a tante generazioni di operare scelte razionali e consapevoli sulle strade della vita.
Anche in Brasile, dove ha lavorato dal 2008 al 2012 come responsabile dell’Ufficio scuola del Consolato d’Italia di Belo Horizonte, aveva portato le sue idee, riscuotendo notevole successo.
Il mondo è piccolo davvero e un giorno, parlando di lui con una collega scoprivo con piacere che quanto avevo intuito dai suoi scritti e dalle sue parole corrispondeva a verità: lei lo aveva conosciuto quando dalla Calabria era andata a insegnare in Emilia Romagna. Confermava che fosse una bella persona, creativa, dedita alla scuola e capace di instaurare un rapporto sereno e dialettico con i docenti.
«È vero maestro non quello che ti dice qual è la strada da percorrere, ma colui che ti apre gli occhi e ti fa vedere le tante strade sulle quali puoi liberamente inoltrarti» , così diceva, e con la sua pedagogia semplice e gentile sicuramente ha permesso a tante generazioni di operare scelte razionali e consapevoli sulle strade della vita.
Tre anni fa la sua missione terrena è finita: a soli 54 anni un male incurabile l’ha portato via, ma come accade a chi ha saputo fare della sua esistenza, seppur breve, un capolavoro, il suo ricordo rimane indelebile.
Personalmente credo che fortuite coincidenze siano necessarie per focalizzare immagini care e a me, che ho avuto modo di apprezzare la sua pedagogia, è sembrato particolare che il giorno della sua morte coincidesse con quello del mio compleanno...
Non posso, in quel giorno, fare a meno di pensare che il dirigente Zavalloni non abbia smesso di giocare con i suoi burattini, di osservare le nuvole, di costruire giocattoli di legno, di insegnarci quali siano le cose importanti della vita e di amare i bambini e il loro mondo così pieno di fantasie e di spontaneità.
La retorica non sarebbe piaciuta a una persona così immediata e genuina e perciò la tralascio...
Personalmente credo che fortuite coincidenze siano necessarie per focalizzare immagini care e a me, che ho avuto modo di apprezzare la sua pedagogia, è sembrato particolare che il giorno della sua morte coincidesse con quello del mio compleanno...
Non posso, in quel giorno, fare a meno di pensare che il dirigente Zavalloni non abbia smesso di giocare con i suoi burattini, di osservare le nuvole, di costruire giocattoli di legno, di insegnarci quali siano le cose importanti della vita e di amare i bambini e il loro mondo così pieno di fantasie e di spontaneità.
La retorica non sarebbe piaciuta a una persona così immediata e genuina e perciò la tralascio...
Credo che abbia apprezzato le cose belle e le abbia gustate con la lentezza che tanto raccomandava e credo che la brevità della sua vita sia anch’essa un monito per tutti noi a rallentare la corsa spasmodica e fine a se stessa, per capire che ogni attimo della nostra esistenza ha valore nella misura in cui sappiamo utilizzarlo non esclusivamente per i nostri fini, ma per donare agli altri il nostro mondo interiore, la nostra profondità che va al di là dell’apparenza, la nostra gioia di vivere che supera la realtà materiale per afferrare l’impalpabile mondo dei sogni.
Gianfranco Zavalloni ci ha lasciato una bella e ricca eredità, un sorriso compiaciuto del mondo e della sua bellezza, un amore verso le cose semplici e verso la terra che aveva amato, quella terra che i suoi cari avevano coltivato con pazienza e speranza e che ha dato frutti buoni, capaci di ristorare la nostra sete d’infinito.
Gianfranco Zavalloni ci ha lasciato una bella e ricca eredità, un sorriso compiaciuto del mondo e della sua bellezza, un amore verso le cose semplici e verso la terra che aveva amato, quella terra che i suoi cari avevano coltivato con pazienza e speranza e che ha dato frutti buoni, capaci di ristorare la nostra sete d’infinito.
Il clima di accelerazione storica del mondo contemporaneo con i suoi ritmi sempre più frenetici e vorticosi ha investito anche la scuola, che spesso non rispetta i tempi di apprendimento dei bambini e li costringe ad una spasmodica corsa, finalizzata al raggiungimento di sempre più incalzanti obiettivi ed alla realizzazione delle più varie proposte progettuali.
L’immagine che emerge è quella di una realtà fittizia, che rischia di essere divergente rispetto alle reali aspettative dei nostri alunni ed ai loro bisogni essenziali.
Il mio professore di pedagogia dell’Istituto Magistrale ci ripeteva spesso un concetto di Rousseau: “bisogna perdere tempo per guadagnarne”, evidenziando che quello che a volte ci appare come tempo perso è in realtà il modo più idoneo per favorire i processi di apprendimento e di crescita degli alunni. A distanza di tanti anni, convinta da esperienze maturate “sul campo”, ho ritrovato nel pensiero del dirigente scolastico Gianfranco Zavalloni una definizione autorevole a quanto da tempo riesco a rilevare nella prassi scolastica quotidiana.
A scuola, soprattutto nella scuola primaria, è necessario bandire la fretta e gli alunni devono avere la possibilità di crescere nel rispetto dei loro ritmi, dei loro modi e dei loro tempi di apprendimento. Il fautore della cosiddetta “pedagogia della lumaca” indica delle strategie didattiche di “rallentamento”, peraltro identificate in una scuola di Bolzano, utili per far vivere ad ogni bambino la scuola come un luogo in cui si cresce in modo naturale e tranquillo.
Perdere tempo a parlare rappresenta la premessa indispensabile per un corretta relazione educativa: non si può prescindere, infatti, dalla reciproca conoscenza e creare in classe un clima sociale positivo è possibile solo ascoltando e conversando con i bambini, conoscendo la loro storia e le loro vicissitudini quotidiane.
I nostri alunni, infatti, non sono materiale amorfo, da trattare in modo indifferenziato e modellare a nostro piacimento… L’ascolto è una delle esperienze più significative, direi fondamentali, della didattica e rappresenta la premessa di quell’empatia necessaria per fare dell’insegnamento una relazione d’aiuto.
Occorre perdere tempo per parlare insieme, nel rispetto di tutti; si deve perdere tempo per darsi tempo, ossia per scoprire ed apprezzare le piccole cose, quelle che magari diamo per scontate, ma che in realtà non lo sono, soprattutto per i nostri alunni, che vivono ogni esperienza con la gioia dello stupore. Ma è importante perdere tempo per condividere le scelte, organizzando a scuola zone di libertà “dove tutti possono sentire la responsabilità di ciò che hanno scelto”, e non solo…..
Si può perdere tempo per giocare, camminare, crescere: il gioco educa alla convivenza civile più di sterili regole apprese sui libri, che non saranno mai interiorizzate perché non vissute; camminare aiuta ad una maggiore conoscenza e alla scoperta del territorio e per prepararci al futuro dobbiamo dare il giusto spazio al nostro presente. Infine, perdere tempo per guadagnare tempo è necessario perché la velocità s’impara nella lentezza.
Il dirigente Zavalloni, grazie all’esperienza maturata in passato come insegnante di scuola materna prima e di scuola elementare dopo, ha delineato una sua “idea di scuola”: partendo dalle riflessioni pedagogiche di Malaguzzi, dalla teoria delle intelligenze multiple di Gardner, da Morin, dalle esperienze didattiche di Lodi e del Movimento di Cooperazione Educativa, arriva alla conclusione che un apprendimento significativo deve passare attraverso tre esperienze:
il gioco
lo studio
il lavoro manuale
Naturalmente, non ci dovrebbe essere una scansione rigida degli orari da dedicare alle discipline di studio, ma piuttosto soddisfare la voglia di conoscenza dei bambini con proposte valide e motivanti. Una classe ideale dovrebbe essere, a suo avviso, composta da un massimo di 16 alunni, sia per favorire il lavoro a piccoli gruppi che per dare spazio alle potenzialità del singolo. Inoltre, sarebbe possibile sperimentare la funzione del tutoring tra pari: il bambino più competente che si occupa del più insicuro, in un clima di collaborazione reciproca.
La scuola, in questo modo, diventa uno spazio di crescita nel quale ad ognuno è consentito di esprimersi senza riserve e nel rispetto dei suoi ritmi, entrando in relazione con gli altri.
Secondo Zavalloni, “la scuola è un concentrato di esperienze, una grande avventura che può essere vissuta come se fosse un viaggio, un libro da scrivere insieme, uno spettacolo teatrale, un orto da coltivare, un sogno da colorare”. A scuola, infatti, si deve promuovere la ricerca, quella vera, che non si avvale semplicemente di un motore di ricerca per reperire informazioni, ma si basa sulla capacità di acquisire informazioni, di confrontarle con altre, cercando anche le persone giuste capaci di fornirle: la possibilità di commisurarsi con le opinioni degli altri e farne poi un nostro “pensiero sintetico” consente di costruire realmente un pensiero critico e di porre le basi per la formazione di una coscienza civica. E’, anche questo, un lavoro lento, “artigianale”, ma con un valore intrinseco determinato proprio dalla costruzione attiva del sapere. I bambini, oggi, fanno ricerche avvalendosi solo del computer ed utilizzando “copia e incolla” per economizzare sul tempo …..ma cosa rimane loro di questo sterile assemblaggio di notizie? La scuola deve offrire ad ogni alunno gli strumenti e gli spazi necessari per crescere e le tecniche di rallentamento sono necessarie per non perdere di vista il valore dell’alunno come persona unica e irripetibile, fatta di emozioni e di sentimenti.
La fretta, si sa, è cattiva consigliera e induce, a volte, i docenti ad assegnare molti compiti per casa per completare i percorsi programmati. Il problema, secondo Zavalloni, non è dato dalla quantità, bensì dalla qualità: se i compiti coinvolgono emotivamente l’alunno e sono piacevoli non sono vissuti come un peso, ma come una piacevole attività di ricerca e di riflessione.
A me è capitato, trattando di poesia, di invitare i bambini ad inventare, senza impegno, a casa, delle filastrocche e di scriverle su foglietti per poi, magari, leggerle in classe. Vedere corrisposta questa semplice richiesta in modo copioso e puntuale conferma il fatto che se un compito piace lo si svolge con amore e non lo si vive come un peso gravoso!
Un’altra osservazione significativa dell’autore è quella della calligrafia: abituare i bambini a scrivere bene (addirittura azzarda un ritorno al pennino e all’inchiostro) è didatticamente importante, intanto perché l’ordine esteriore è proporzionale a quello interiore e poi perché il nostro compito è quello di educare al bello. Così si promuove il gusto estetico e si impara ad amare la vita e la sua bellezza. La bella scrittura, che mi è stata insegnata dalla mia maestra, mi ha sempre aiutato ed è vero che una pagina scritta bene rende piacevole la lettura e ci abitua ad una lentezza produttiva. L’esempio della moviola, utilizzato dall’autore, è calzante per farci comprendere che le riprese alla moviola sono più affascinanti di quelle normali perché ci consentono di vedere tutti i particolari…
Consiglio pertanto la lettura del libro di Gianfranco Zavalloni, che ho trovato molto agevole e significativo, anche alla luce della mia esperienza di insegnante; per far sì che le nuove generazioni non si facciano travolgere dalla fretta ed imparino ad osservare e scoprire il mondo con gli occhi del neofita, con i loro occhi di bambini che sanno ancora esclamare “Oh, che meraviglia!”dobbiamo evitare di spegnere, in nome di una corsa senza significato, la loro sete di conoscenza, che ha bisogno di tempo e di rispetto.
Mi piace sintetizzare la pedagogia della lumaca, ovvero l’elogio della lentezza, con un invito proveniente dalla cultura latina: Festina lente, ossia affrettati lentamente… Per arrivare alla meta non bisogna correre, magari improvvisando, ma impegnarsi senza fretta ed in modo oculato.
Bibliografia:
Gianfranco Zavalloni, La pedagogia della lumaca. Per una scuola lenta e solidale, EMI, Bologna, 2008
Autore: Aida Dattola, insegnante nella scuola primaria, laureata in Pedagogia.
Una pagina da libro Cuore
Gli occhi annacquati dal sonno improvvisamente
interrotto, sempre persi in pensieri più grandi di lui, pronti a sorridere
appena il mio sguardo si incrocia con il suo. E’ un mio alunno, un caro alunno.
Abita lontano, in campagna e ora, grazie allo scuolabus, riesce a risparmiare
tanta strada che prima percorreva a piedi per raggiungere la scuola. Arriva
sempre in perfetto orario, eppure deve “trascinarsi” dietro la sorellina, un
minuscolo fringuello con due occhioni azzurri e un tenero sorriso stereotipato
sulle labbra.
Anche lui ha gli occhi azzurri, intensi,
che sembrano provati dalla vita. Per lui la scuola è un dovere come gli altri,
che però gli offre la possibilità di riposarsi un po’ di più e di liberarsi da
certe responsabilità. Però anche la scuola è da prendere sul serio, infatti non
gli piace”perder tempo“a cantare, a conversare…Lui vuole scrivere, testimoniare
graficamente gli sforzi del suo pensiero e non importa se gli strafalcioni si
moltiplicano, se vengono disattese le più elementari regole ortografiche:
l’importante, per lui, è lavorare!
Ora non mi stupisco della sua alacrità,
ma i primi tempi sì e non riuscivo a capire perché un bambino della sua età
dovesse avere un’idea così distorta del dovere. Poi ho conosciuto suo padre, un
fratellino, un altro…è una famiglia numerosa, la sua. Suo padre è convinto di
dare tanto ai figli perché non fa mancare nulla a tavola, ma evidentemente ...
Luca trascorre così le sue giornate: la mattina a scuola e, dopo aver eseguito
frettolosamente i compiti sullo scuolabus che lo porta a casa, pranza assieme
ai suoi. Dopo porta le mucche a pascolare, quelle mucche con le quali ha un
rapporto di odio-amore, tanto da averle battezzate con nomi singolari e da
imprecare stizzosamente contro di loro perché gli reprimono i sogni.
La sera ritorna a casa, ma non ha
neppure la televisione e può soltanto ascoltare la radio. Penso che non
conversi troppo, perché le sue esperienze sono sempre le stesse, le giornate
monotone… eppure i suoi occhi brillano, le sue labbra sempre pronte al sorriso,
anche se velato da una recondita tristezza. A volte mi sembra di leggere sul
suo viso anche un po’ di amarezza e mi rimprovero di non essere stata
abbastanza comprensiva con lui, che ha le ali tarpate e sente già il peso di
una vita adulta. Mi auguro di rivederlo più sereno, meno gravato da
responsabilità e capace di offrire al mondo sorrisi più sinceri. Anzi, spero di
ritrovarlo fra tanti anni felice, sicuro, perché è un buono e ha tanta voglia
di crescere…
Questo scrivevo di Luca venti anni fa,
quando insegnavo in una piccola scuola di campagna, su un diario che era allora
il mio compagno di avventura. Ebbene, qualche tempo fa incontro a scuola
(adesso insegno nel mio paese) un giovane dagli occhi azzurri, che mi sorride e
mi dice: «Certo che il suo sorriso, cara maestra, è rimasto inalterato nel
tempo!» «Ci conosciamo?» gli rispondo incuriosita. «Ma certo! Sono il
suo alunno Luca, ricorda?»
Un rapido flash back e subito focalizzo
quel bambino che avevo portato nel cuore per tanti anni, chiedendomi se avesse
trovato la forza di riscattarsi da una vita difficile. Sì, il mio sogno si era
avverato!Adesso Luca faceva il rappresentante, si era sposato e aveva due
bambini, ma, quel che più conta, era sereno…
Questa, che sembra una pagina tratta dal libro
Cuore, è una storia vera, che merita di essere raccontata per indurci a credere
in noi stessi e nei nostri sogni e a comprendere che nella scuola è importante
far acquisire a ogni bambino, anche a quello che disattende le regole
ortografiche e magari non svolge regolarmente i compiti, la fiducia necessaria
a far emergere le sue potenzialità nascoste. Allora, ai tempi di Luca, ero una
giovane maestra con tanto entusiasmo e impegnata ad insegnare ai miei alunni a
credere nella positività della vita, anche se il mio futuro scolastico appariva
incerto per via di una sede disagiata…
Grazie Luca, mi
hai riempito il cuore di gioia e mi hai fatto capire che se, nel mio piccolo,
ti ho aiutato a credere nei tuoi sogni e a inseguirli per afferrarli e tradurli
in realtà, la mia esperienza scolastica non è stata vana.
Autrice: Aida
Dattola, insegnante
nella scuola primaria, laureata in Pedagogia
copyright © Educare.it - Anno
XIV, N. 9, settembre 2014
LA PEDAGOGIA DELL’ACCOGLIENZA A SCUOLA
di Aida Dattola, su www.educare.it (21/12/2010)
"Accoglienza” è la parola-chiave della pedagogia contemporanea, perché solo dall’apertura verso l’altro nasce il dialogo e solo attraverso l’abbattimento delle barriere legate ai pregiudizi si può favorire la crescita culturale. In una scuola che sempre più si caratterizza come luogo integrato di formazione è necessario che si avvii un libero scambio di relazioni interpersonali e che si parli di accoglienza a tutti i livelli.
"Accoglienza” è la parola-chiave della pedagogia contemporanea, perché solo dall’apertura verso l’altro nasce il dialogo e solo attraverso l’abbattimento delle barriere legate ai pregiudizi si può favorire la crescita culturale. In una scuola che sempre più si caratterizza come luogo integrato di formazione è necessario che si avvii un libero scambio di relazioni interpersonali e che si parli di accoglienza a tutti i livelli.
Il dirigente, nella sua
qualità di manager, deve essere disponibile all’ascolto attivo con i docenti,
per valutarne competenze ed attitudini, per pianificare in modo adeguato
l’organizzazione didattico- educativa e per promuovere la crescita degli alunni.
Deve, inoltre, accogliere tutti gli operatori scolastici per definire ruoli ed
attività ed interagire con loro in modo proficuo, ma soprattutto deve
manifestare la sua disponibilità ad accogliere le famiglie, per avviare quel
dialogo interattivo che è la vera premessa di un proficuo progetto educativo,
il cui fulcro è rappresentato dal bambino.
Il compito di accoglienza del docente non è circoscritto al bambino disabile o
extracomunitario, ma è rivolto a tutti , perché ognuno è una realtà a sé stante,
caratterizzata da esperienze pregresse più o meno incisive, da un vissuto
personale e da sollecitazioni culturali varie…
“Accogliere” significa amare senza condizionamenti o riserve, significa
scoprire che ognuno di noi è un essere unico e irripetibile e questa ”diversità”
è la vera possibilità di confronto e di crescita, è la vera risorsa da
valorizzare.
Per vivere in classe un clima relazionale positivo è necessario accogliere ogni
bambino per quello che è. L’approccio sarà diverso, ma la finalità è comune: garantire ad ognuno la
possibilità di esprimere al massimo le proprie potenzialità, nel rispetto della
sua libertà, dei suoi tempi, dei suoi ritmi e dei suoi modi di apprendimento.
Perché ciò avvenga deve “star bene” a scuola, sentirla come una seconda casa.
E’ importante anche l’atteggiamento: un sorriso, una postura adeguata (tante
volte, per parlare con i bambini più piccoli, abbassarsi al loro livello,
guardarli negli occhi e far loro capire che siamo con loro). Quanto male
possiamo fare ai bambini anche con una parola fuori posto o con un tono freddo
e distaccato… No, quindi, all’emarginazione ed al distacco, no alle situazioni
che possono accentuare un eventuale disagio…
Ogni bambino merita la giusta attenzione dell’insegnante e dei compagni e ciò
può avvenire promuovendo una cultura dell’accoglienza.
Fra bambini è facile creare situazioni di confronto e di accettazione: il
gioco, il dialogo, lo scoprire che ognuno ha un talento da esprimere, la
possibilità di cooperare insieme per raggiungere un fine comune, il gioco di
squadra...La scuola non è un ambiente asettico, ma un luogo di relazioni umane, nel quale
la convivenza civile non si insegna propinando sterili norme di comportamento,
ma “vivendo” concretamente situazioni sociali che si traducono in comportamenti
condivisi. Arrivare a scuola ed essere accolti dal dirigente con un sorriso, entrare in
classe ed accogliere con affetto i bambini e vedere gli operatori scolastici
prodigarsi nell’aiutarli a portare lo zaino troppo pesante, sapere che si può,
in caso di necessità, rivolgersi a loro per risolvere i piccoli problemi di
vita scolastica è il bello della scuola comunità, è la premessa indispensabile
per una corretta impostazione dell’attività didattico-educativa, è sentirsi un
tassello importante di un mosaico ricco e variegato.E allora, in questo percorso pedagogico, trova la giusta collocazione la festa
iniziale dell’accoglienza, durante la quale si ricevono tutti i bambini in modo
gioioso e, in particolare, i piccoli della prima classe, ma la motivazione
della festa deve continuare nella prassi didattica quotidiana.Personalizzare
l’insegnamento significa scoprire in ogni alunno una realtà a sé stante ed
intervenire in modo adeguato per sviluppare le sue potenzialità, per fargli superare
eventuali disagi e frustrazioni e per far emergere le sue attitudini.
La classe è uno spaccato di vita, dove si impara che diversi sono i caratteri, le idee, le capacità ed è importante conoscere per capire ed amare.
“L’uomo che respira amore e bellezza è il bimbo che viveva nella gioia anche
ieri” sostiene Russell e per vivere nella gioia egli deve sapere che è stato
accolto già come un dono nella sua famiglia e che la scuola è il luogo in cui,
incontrando altre persone, potrà trovare lo spazio giusto per crescere senza
paura di sbagliare , perché ci sarà sempre qualcuno disposto ad incoraggiarlo,
a sostenerlo ed a comprenderlo.
Non dimentichiamo che l’autostima nasce dal sentirci amati e rispettati pur con i nostri limiti e le nostre incertezze.
Non dimentichiamo che l’autostima nasce dal sentirci amati e rispettati pur con i nostri limiti e le nostre incertezze.
La pedagogia dell’accoglienza non ha la sua ragion d’essere solo in una società
multiculturale e multietnica qual è la nostra, ma in ogni società. Chi,
infatti, ha sperimentato nel corso della sua vita il rifiuto, l’indifferenza o
addirittura l’emarginazione, comprenderà quanto sia difficile, per un bambino,
accettare soltanto la mancanza di attenzione…
Pertanto, una scuola che si proietta nel terzo millennio non può esimersi dal
valutare l’importanza di “accogliere” ogni suo alunno, per farne un uomo capace
di scelte libere e consapevoli.
L’importanza di chiamarsi “maestro”
In un mondo in rapida evoluzione
è normale che anche certe parole vengano fagocitate dai processi innovativi ed
accantonate come “desuete”. Dov’era finito il maestro di quella che, in un
tempo non tanto lontano, si chiamava scuola elementare? Soppiantato dalla nuova
figura del docente, cioè di colui che insegna…Eppure è bastato un recente
decreto ministeriale per farlo tornare alla ribalta e per animare un acceso
dibattito sulle future prospettive della scuola legate alla sua “riesumazione”.
L’explicatio terminorum è
fondamentale per ridefinirne ruolo e professionalità: analizzando l’etimologia
del termine “maestro” dovremmo, noi che apparteniamo alla categoria, sentirci
orgogliosi di esserlo. “Maestro” deriva, infatti, dal latino “magister” (da
magis, di più); in ebraico maestro è “rabbi”, che significa “grande” ed in
sanscrito “guru”, pesante di dignità e prestigio…Il maestro è, dunque, colui che guida, spiana il cammino; un compito delicato il suo, caratterizzato dalla piena condivisione di ciò che insegna. Il vero maestro, infatti, è colui che dapprima cerca di migliorare se stesso e poi indirizza il proprio intervento sugli altri.
La storia della pedagogia ci insegna che i veri maestri sono coloro che sanno instaurare un rapporto relazionale significativo con l’alunno e rappresentano per lui un valido modello di riferimento. Per essere maestri occorre, quindi, avere un ideale di vita e, attraverso l’insegnamento e l’esempio, produrre nell’alunno il desiderio di condividerlo. Perché nessun maestro può imporre, ma nel rispetto della libertà individuale, deve solo condurre per mano l’allievo sui sentieri della vita, indirizzare e non coercizzare, condividere e non imporre. Il maestro unico, che ha lasciato una traccia indelebile nella storia della scuola italiana, oggi ritorna, ma, a mio avviso, non può essere considerato un nostalgico ricordo del passato: gli si deve restituire la dignità e la professionalità che ha sempre avuto e perché ciò sia possibile è necessario che siano chiare le mete da raggiungere, tenendo conto delle mutate esigenze sociali e, soprattutto, delle richieste educative, urgenti, del bambino.
Chi vive nella scuola e viene a contatto con un’infanzia sempre più problematica e indifesa comprende i cambiamenti che si sono verificati e sa che il modo di “fare scuola “ non può essere simile a quello del passato. Una scuola al passo con i tempi deve necessariamente considerare che, accanto ai cosiddetti “saperi tradizionali”sono necessari lo studio delle lingue, dell’informatica e delle scienze, che l’educazione civica deve avere un ruolo determinante per formare “persone”capaci di vivere in modo positivo nella società e che il sapere non può essere disgiunto dal “saper fare”…
Per garantire percorsi formativi idonei non è più sufficiente il maestro unico “tuttologo”: occorre affiancargli i cosiddetti “specialisti”, che mettano al servizio dell’alunno le loro specifiche competenze. La scuola del “leggere, scrivere e far di conto”, delineata dai programmi del 1955, era valida per quella società ed è lapalissiano affermare che in mezzo secolo di storia la ricerca pedagogico-didattica ha raggiunto nuove acquisizioni. Questo non significa negare la validità del maestro unico, soprattutto nelle prime classi: se ben preparato, egli consente quel processo di identificazione necessario ai bambini per cominciare a rispettare delle regole e per sentirsi affettivamente protetti.
Sono convinta che i maestri che possono fregiarsi di tale titolo esistono ancora e che, anzi, oggi più che mai sono in grado di incidere positivamente sulla formazione della personalità dei bambini.
Fondamentale è sempre la
relazione educativa e la trasmissione del cosiddetto “curricolo implicito”, che
è il patrimonio personale di ogni insegnante, più o meno inconsciamente
proposto agli alunni. Vivere il mondo della scuola con passione, cercando di
tenere ben saldi i punti cardine del proprio operare, è la premessa
indispensabile per sentirsi maestri a pieno titolo. Avvertire l’entusiasmo del
coinvolgimento, la consapevolezza che spesso i bambini ti guardano per scrutare
il tuo comportamento e tu non puoi tradirli perché faresti del male a te stesso
e a loro; comprendere che anche una parola fuori posto può ferire un alunno ed
aver coscienza del fatto che nelle gioie e nelle fatiche di ogni giorno di
scuola si realizza un incontro tra anime: questi sono i nostri delicati ed
autorevoli compiti. Rappresentiamo dei modelli di riferimento e non dobbiamo
mai dimenticarlo: è questa la grandezza del nostro ruolo e l’impegno che ci
deve animare è quello di cercare di migliorare sempre noi stessi per rendere
migliori i nostri alunni.
La fase critica che investe la nostra scuola rende necessaria una rivalutazione del ruolo insegnante: maestri si può diventare con l’impegno costante, la ricerca e soprattutto la chiarezza degli obiettivi che si vogliono perseguire. Le motivazioni pedagogiche che stanno alla base della rivalutazione del maestro unico non sono state, forse, opportunamente definite, ma chi ogni giorno si impegna nella scuola sa che le ripetute presunte innovazioni hanno demotivato tanti maestri.
Da maestra che opera nella scuola da più di vent’anni e che è nata come maestra unica per poi vivere tutte le novità nella scuola con l’entusiasmo della neofita e a volte la delusione per i risultati non corrispondenti alle aspettative, posso solo augurarmi che questo ritorno al passato sia vissuto alla luce delle esigenze dei bambini. Il nostro ruolo è determinante ai fini della formazione della personalità degli alunni e noi non possiamo prescindere dall’ascolto, dal rispetto dei tempi, dei ritmi e dei modi di apprendimento di ciascun alunno: garantire una presenza stabile è anche utile per creare un clima sociale positivo e disteso, nel quale sia data ad ognuno la possibilità di esprimersi e di sentirsi compreso. La scuola, per espletare al meglio il suo compito, ha bisogno di maestri che lo siano anche di vita, che aiutino il bambino a fare del sapere il mezzo per vivere meglio con se stessi e con gli altri, per costruire una società più giusta e più a misura d’uomo,sempre orientati da alti valori. Più è tempestivo l’intervento, più immediati saranno i risultati. I maestri della scuola elementare, non solo quella di deamicisiana memoria, ma anche quelli di più recente generazione (cito, fra tutti, il maestro Gianni Rodari) sono quelli che insegnano agli alunni a vivere semplicemente con il loro esempio e la loro gioia. Non dimentichiamo che i bambini, anche se sono cambiati, sono sempre bambini e riescono ancora a stupirsi e a fantasticare: non dobbiamo uccidere i loro sogni, la loro voglia di crescere e di imparare, di scoprire e di fare…non dobbiamo dimenticare che le loro tappe evolutive devono essere rispettate senza inutili “bombardamenti culturali”.
La scuola primaria è la scuola dell’accoglienza e del dialogo, dell’approccio al sapere intenzionale e motivato, della socializzazione e della creatività; ha bisogno di guide serene e motivate, che riaffermino la loro dignità nell’azione sinergica con le famiglie, che tanto più ci apprezzano quanto più siamo capaci di far comprendere la dignità del nostro ruolo e il rispetto per il nostro operato.
La storia è maestra di vita e ciò che di positivo ci ha offerto il passato deve essere rivisto alla luce dei cambiamenti sociali con gli opportuni adeguamenti, ma con la precisa consapevolezza che i bambini hanno bisogno di saldi punti di riferimento. L’importanza di chiamarsi “maestro” è, dunque, motivo di orgoglio per chi ancora crede in questo ruolo.
La fase critica che investe la nostra scuola rende necessaria una rivalutazione del ruolo insegnante: maestri si può diventare con l’impegno costante, la ricerca e soprattutto la chiarezza degli obiettivi che si vogliono perseguire. Le motivazioni pedagogiche che stanno alla base della rivalutazione del maestro unico non sono state, forse, opportunamente definite, ma chi ogni giorno si impegna nella scuola sa che le ripetute presunte innovazioni hanno demotivato tanti maestri.
Da maestra che opera nella scuola da più di vent’anni e che è nata come maestra unica per poi vivere tutte le novità nella scuola con l’entusiasmo della neofita e a volte la delusione per i risultati non corrispondenti alle aspettative, posso solo augurarmi che questo ritorno al passato sia vissuto alla luce delle esigenze dei bambini. Il nostro ruolo è determinante ai fini della formazione della personalità degli alunni e noi non possiamo prescindere dall’ascolto, dal rispetto dei tempi, dei ritmi e dei modi di apprendimento di ciascun alunno: garantire una presenza stabile è anche utile per creare un clima sociale positivo e disteso, nel quale sia data ad ognuno la possibilità di esprimersi e di sentirsi compreso. La scuola, per espletare al meglio il suo compito, ha bisogno di maestri che lo siano anche di vita, che aiutino il bambino a fare del sapere il mezzo per vivere meglio con se stessi e con gli altri, per costruire una società più giusta e più a misura d’uomo,sempre orientati da alti valori. Più è tempestivo l’intervento, più immediati saranno i risultati. I maestri della scuola elementare, non solo quella di deamicisiana memoria, ma anche quelli di più recente generazione (cito, fra tutti, il maestro Gianni Rodari) sono quelli che insegnano agli alunni a vivere semplicemente con il loro esempio e la loro gioia. Non dimentichiamo che i bambini, anche se sono cambiati, sono sempre bambini e riescono ancora a stupirsi e a fantasticare: non dobbiamo uccidere i loro sogni, la loro voglia di crescere e di imparare, di scoprire e di fare…non dobbiamo dimenticare che le loro tappe evolutive devono essere rispettate senza inutili “bombardamenti culturali”.
La scuola primaria è la scuola dell’accoglienza e del dialogo, dell’approccio al sapere intenzionale e motivato, della socializzazione e della creatività; ha bisogno di guide serene e motivate, che riaffermino la loro dignità nell’azione sinergica con le famiglie, che tanto più ci apprezzano quanto più siamo capaci di far comprendere la dignità del nostro ruolo e il rispetto per il nostro operato.
La storia è maestra di vita e ciò che di positivo ci ha offerto il passato deve essere rivisto alla luce dei cambiamenti sociali con gli opportuni adeguamenti, ma con la precisa consapevolezza che i bambini hanno bisogno di saldi punti di riferimento. L’importanza di chiamarsi “maestro” è, dunque, motivo di orgoglio per chi ancora crede in questo ruolo.
Autore: Aida Dattola, insegnante nella
scuola primaria, laureata in Pedagogia.
copyright © Educare.it - Anno VIII, Numero 12,
Novembre 2008
Nessun commento:
Posta un commento