sabato 30 luglio 2016

Il latino nella scuola primaria



Un’ esperienza significativa, vissuta in una classe quinta di una scuola primaria,
mi consente delle riflessioni sull’approccio alla lingua latina nella scuola primaria.
  Per proiettarci in modo proficuo nel futuro non possiamo prescindere dalle nostre radici,
cioè dal patrimonio esperienziale accumulato nel corso del tempo, consolidato
e definito dalla tradizione ed i cui effetti riscontriamo nel quotidiano.
E la lingua, che per sua stessa natura è in continua evoluzione e si avvale
dei termini del passato per utilizzarli, magari modificandoli, in nuovi contesti,
trae linfa vitale dal ceppo che le ha dato vita e che deve pertanto
essere conosciuto ed apprezzato. Per amare la nostra lingua nazionale
e per migliorare le nostre competenze linguistiche si rende pertanto necessario
conoscere la lingua parlata di nostri padri, il latino.
Il progetto “Maiorum sermo” è stato elaborato con la specifica motivazione
di suscitare negli alunni di quinta elementare il desiderio di esplorare i segreti e i legami
che ancora uniscono, dopo tanti secoli, l’italiano al latino, al fine di garantire maggiore
duttilità espressiva e di aiutarli, così, a “crescere”.
Don Milani sottolineava l’importanza e la centralità della lingua quale strumento
che consente alla persona di comunicare, rielaborare e trasmettere esperienze e conoscenze
e di agire nel proprio contesto di vita, interpretandolo e modificandolo.
“Perché è solo la lingua che fa eguali. Eguale è chi sa esprimersi e intende
l’ espressione altrui. Che sia ricco o povero importa poco. Basta che parli.”
La padronanza linguistica, infatti, ci consente di arricchire il nostro bagaglio culturale
e di migliorare i rapporti con gli altri.
La lingua è, dunque, un patrimonio per chi la possiede e a maggior ragione lo è il latino,
espressione di una civiltà che è stata e continua ad essere maestra e guida di ogni civiltà.
Gli obiettivi che il progetto si prefigge sono i seguenti:
  • Conoscere le origini della lingua italiana
  • Stabilire un contatto con la civiltà latina
  • Ricavare le etimologie latine dalle parole italiane
  • Conoscere massime e proverbi latini
  • Realizzare confronti tra parole latine e parole italiane
  • Rilevare parole latine tuttora in uso
  • Rilevare l’ uso di prefissi e suffissi latini
  • Ricercare le matrici latine dei termini grammaticali
Per il perseguimento di tali obiettivi è utilizzata una metodologia attiva,
di ricerca e di confronto, atta a suscitare la motivazione ad apprendere
attraverso un rapporto di connessione fra la lingua italiana e il latino.
Attraverso la lettura di semplici testi, la ricerca, l’apprendimento mnemonico di parole,
massime e proverbi e schede di analisi linguistica si favoriscono momenti di contatto
fra le due lingue e, senza trascurare la dimensione ludica, si consente ai bambini di trovare
affinità e di “giocare” con le parole.
Particolarmente significativo è l’approccio con “le parole della grammatica”.
Spiegare, ad esempio, che il termine aggettivo deriva dal latino adiectivus,
che significa “aggiunto” è utile per un percorso di conoscenza grammaticale.
ESEMPIO
Aggettivo deriva dal latino adiectivus, che significa aggiunto.
Infatti, l’aggettivo si aggiunge al nome per qualificarlo, per indicarne il possesso,
la quantità, la vicinanza o la lontananza.







I contenuti di studio sono quelli della civiltà latina: la famiglia, i giochi, le feste,
i mesi dell’anno, i giorni della settimana ecc...; dalle parole latine si ricavano i termini
italiani in uso, dei quali si spiegherà il significato.
L’arricchimento lessicale è assicurato: gli alunni si divertono ad utilizzare le parole apprese
in nuovi contesti e a ricercarne di nuove, come accade, per esempio, con i composti del verbo “fero”.



     

Le prove di verifica, realizzate in itinere ed alla fine del percorso, sono costituite da cloze,
schede di analisi linguistica, prove del tipo vero/falso.
I dati emersi dalle prove di verifica relative al progetto attivato rivelano che gli alunni
hanno migliorato le loro competenze linguistiche , hanno arricchito il loro bagaglio
lessicale ed hanno utilizzato i termini latini in uso nella nostra lingua con maggiore facilità,
scoprendo neologismi e giocando con la lingua.
Autore: Aida Dattola, insegnante nella scuola primaria da 25 anni, laureata in Pedagogia, ha conseguito un master in didattica della lingua italiana.
copyright © Educare.it - Anno VI, Numero 10, Settembre 2006


giovedì 28 luglio 2016

Il maestro(Renato Zero)


"...Punta in alto, credi a me! Guarda avanti!"


Un ricordo di Gianfranco Zavalloni


Ci sono delle persone che incontri casualmente nel tuo cammino e lasciano un segno indelebile e che t’insegnano, con il loro esempio e le loro qualità, più delle centinaia di libri che hai letto o degli insegnamenti che hai ricevuto in tanti anni di studi. A me è successo con Gianfranco Zavalloni.

Anni fa ho scoperto, navigando su Internet alla ricerca di esperienze didattiche significative, un sito molto interessante gestito dal dirigente scolastico Gianfranco Zavalloni. Lui aveva pubblicato, tra l’altro, un “Manifesto dei diritti naturali dei bambini e delle bambine” e desiderava tradurlo nei vari dialetti regionali. Ho offerto la mia collaborazione per la realizzazione del suo progetto inviando una mail e ho subito ricevuto la sua entusiastica approvazione. Mi chiedeva di mettermi in contatto con lui per stabilire degli accordi...e così è stato.

Successivamente ho letto un suo libro sul teatro dei burattini e ho capito che avevo a che fare con una persona speciale. Lui era un pedagogista che non disdegnava le sue origini contadine, anzi le enfatizzava nella sua proposta degli orti di pace nelle scuole; era una persona ricca di cultura, ma povera di quella boria spocchiosa che spesso travolge chi si ritiene detentore di chissà quali verità.
Una persona semplice e tranquilla, ma un vulcano d’idee e di creatività, che manifestava nei suoi disegni, nei suoi spettacoli con i burattini, nella sua voglia di crescere e di raccontare le esperienze realizzate in sedici anni di insegnamento nella scuola dell’infanzia.

Certo andava un po’ controcorrente, perché in un mondo dominato dalla tecnologia e dalla corsa affannosa al successo e alla competizione, in un mondo, insomma, che va di fretta, ha avuto la felice e "trasgressiva" intuizione di proporre un rallentamento. Il suo libro ”La pedagogia della lumaca” evidenzia proprio questa voglia di concepire la conoscenza come una conquista lenta, nata dal contatto con la realtà e dalla lettura serena del mondo. Alla scrittura multimediale contrapponeva la calligrafia, quella che, quando ero bambina, la mia maestra m’ insegnava ad amare, vergando riccioli e volute come esercizio di bellezza, e che mi è servita tutte le volte che ho dovuto comunicare per iscritto a una commissione giudicatrice le mie idee, perché è vero che i contenuti sono fondamentali, ma è pur vero che un testo scritto con bella scrittura rende più piacevole la lettura e dispone benevolmente il lettore.

Controcorrente era anche il desiderio del dirigente Zavalloni di abolire i voti per evitare la competizione e per suscitare negli alunni il piacere dello studio solo per il gusto della conoscenza...
Anche in Brasile, dove ha lavorato dal 2008 al 2012 come responsabile dell’Ufficio scuola del Consolato d’Italia di Belo Horizonte, aveva portato le sue idee, riscuotendo notevole successo.
Il mondo è piccolo davvero e un giorno, parlando di lui con una collega scoprivo con piacere che quanto avevo intuito dai suoi scritti e dalle sue parole corrispondeva a verità: lei lo aveva conosciuto quando dalla Calabria era andata a insegnare in Emilia Romagna. Confermava che fosse una bella persona, creativa, dedita alla scuola e capace di instaurare un rapporto sereno e dialettico con i docenti.
«È vero maestro non quello che ti dice qual è la strada da percorrere, ma colui che ti apre gli occhi e ti fa vedere le tante strade sulle quali puoi liberamente inoltrarti» , così diceva, e con la sua pedagogia semplice e gentile sicuramente ha permesso a tante generazioni di operare scelte razionali e consapevoli sulle strade della vita.

Tre anni fa la sua missione terrena è finita: a soli 54 anni un male incurabile l’ha portato via, ma come accade a chi ha saputo fare della sua esistenza, seppur breve, un capolavoro, il suo ricordo rimane indelebile.
Personalmente credo che fortuite coincidenze siano necessarie per focalizzare immagini care e a me, che ho avuto modo di apprezzare la sua pedagogia, è sembrato particolare che il giorno della sua morte coincidesse con quello del mio compleanno...
Non posso, in quel giorno, fare a meno di pensare che il dirigente Zavalloni non abbia smesso di giocare con i suoi burattini, di osservare le nuvole, di costruire giocattoli di legno, di insegnarci quali siano le cose importanti della vita e di amare i bambini e il loro mondo così pieno di fantasie e di spontaneità.
La retorica non sarebbe piaciuta a una persona così immediata e genuina e perciò la tralascio...

Credo che abbia apprezzato le cose belle e le abbia gustate con la lentezza che tanto raccomandava e credo che la brevità della sua vita sia anch’essa un monito per tutti noi a rallentare la corsa spasmodica e fine a se stessa, per capire che ogni attimo della nostra esistenza ha valore nella misura in cui sappiamo utilizzarlo non esclusivamente per i nostri fini, ma per donare agli altri il nostro mondo interiore, la nostra profondità che va al di là dell’apparenza, la nostra gioia di vivere che supera la realtà materiale per afferrare l’impalpabile mondo dei sogni.
Gianfranco Zavalloni ci ha lasciato una bella e ricca eredità, un sorriso compiaciuto del mondo e della sua bellezza, un amore verso le cose semplici e verso la terra che aveva amato, quella terra che i suoi cari avevano coltivato con pazienza e speranza e che ha dato frutti buoni, capaci di ristorare la nostra sete d’infinito.






 copyright © Educare.it - Anno XV, N. 10, Ottobre 2015


martedì 26 luglio 2016

La gazza ladra(Rossini)


Il ciliegio (Angelo Branduardi)


Acquerello(Toquinho)


La leva calcistica della classe '68


Il segreto di Fiabolina


Un vento burlone, soffiando delicatamente tra i rami di un mandorlo fiorito, fece cadere una manciata di petali madreperlacei, dai quali, per il magico intervento di una fata in vena di stravaganze, nacque Fiabolina, una creatura davvero fantastica. Dal padre, burlone, ma gentile come uno zefiro primaverile, ereditò la possibilità di sfiorare con carezze delicate chiunque le si avvicinasse e di sbriciolare la realtà in un pulviscolo di raffinata allegria; dalla madre ereditò un cuore pieno di dolcezza, che la rese amabile.

Per Fiabolina, naturalmente, era difficile adattarsi alla banalità della vita quotidiana, perché nel suo patrimonio genetico predominava la fantasia e il mondo, nel quale regnavano spesso l’egoismo, l’invidia e la cattiveria, le faceva un po’ paura. Eppure doveva viverci e sforzarsi di dare il meglio di sé in ogni situazione, perché questo aveva promesso, un giorno, a chi le aveva donato la vita. Fiabolina era sola. Raramente suo padre la visitava dallo spiraglio di una finestra e le accarezzava la fronte senza farsi vedere, o la avvolgeva, per strada, in vorticosi mulinelli, dimostrandole la sua voglia bambina di giocare. Sua madre vegliava su di lei, ma i suoi numerosi impegni non le consentivano di dedicare un’ intera giornata al dialogo. Questo, per Fiabolina, era un piccolo dramma, ma per fortuna riuscì presto a porvi rimedio.

I suoi primi amici furono i libri e lei ne lesse tanti per cercare di scoprire un mondo che non conosceva e che non finiva mai di stupirla. Tra le tante parole, dense di significato, le capitò di leggere, un giorno, che per gli uomini i ricordi sono molto importanti e sono, in fondo, quelli che si meritano…
Dopo aver a lungo meditato, Fiabolina decise di costruire i suoi ricordi, magari aiutata dalla fantasia. Trovò in soffitta un grande baule di legno, intarsiato, ed incominciò a sistemarli con cura. La sua pazienza certosina le permise di catalogarli:scartando quelli brutti, che tuttavia appartengono alla vita di ognuno, Fiabolina vi riponeva i sorrisi, le strette di mano, le cortesie, le recite di Natale che la facevano commuovere, le note di un’ Ave Maria, le risate, i piccoli sotterfugi e persino qualche bonaria parola di scherno…

Fiabolina custodiva gelosamente questo suo segreto, pensando di essere un po’ strana, ma, grazie alle quotidiane letture, riusciva a trovare una giustificazione autorevole alle sue inconsuete fantasie. "Non si ha una vita se non la si racconta", sosteneva uno dei più autorevoli studiosi, che scrivevano libri “”importanti”, perciò c’era un filo logico che univa quanto lei andava facendo: il racconto, anche un po’ fantastico , della vita, il ricordo che lo immortalava, il baule…
Bene! Anche se il suo rimaneva ancora un segreto, non le appariva così fuori dall’ ordinario. Anche altri come me-pensava Fiabolina-vivono intensamente la loro vita ed hanno magari un baule più bello del mio, senz’ altro diverso….
Chissà-le balenò in testa una di quelle idee bislacche ereditate dalla madre- chissà che non sia anch’io chiusa in un vecchio baule…e un leggero rossore le colorò
il viso.A giocare con i ricordi si azzecca sempre perché, anche se di per sé non sono belli, dentro un baule, coperti dai veli trasparenti del tempo, si colorano delicatamente ed acquistano un fascino particolare. Fiabolina era felice, ogni sera, quando apriva il suo scrigno segreto e metteva ordine fra le sue cose… le sembrava di accumulare un tesoro d’ inestimabile valore e di vivere bene la sua vita, immersa nella realtà e capace di appoggiarsi alla fantasia.

Anche quando la noia della routine soffocava la sua giornata, appiattendola fino a farla diventare apparentemente senza significato, Fiabolina si ritrovava a riflettere, la sera, e c’ era sempre qualcosa di buono da sistemare dentro il baule , magari una parola buona o un gesto gentile: bastava raccontare dolcemente anche le più semplici esperienze per tramutarle in un piacevole ricordo. Passavano gli anni ed il baule era ormai pieno zeppo.

Fiabolina pensava che tutto quel materiale le sarebbe servito a rendere meno pesante una vecchiaia che sentiva lontana, ma che presagiva triste e noiosa e si immaginava, sdentata e rinsavita dal tempo, vivere frugando soltanto fra i suoi ricordi. Passarono gli anni, perché il tempo vola, specialmente se lo si spende bene, e Fiabolina, figlia del vento e di una fata svagata, giunse alla senilità. Era una vecchina simpatica, rugosa, un po’ curva, ma continuava a sorridere,nonostante le mancassero tanti denti.Ora non doveva più correre, non doveva fare la fila , pagare le tasse, lavorare….finalmente poteva starsene chiusa in casa a meditare. Non riusciva più a leggere bene, perché la vista le si era annebbiata, non sentiva più le voci della strada…Solo la tenue carezza di suo padre le sfiorava di tanto in tanto la fronte e la vigile assenza di sua madre le faceva battere forte il cuore.

Fiabolina, creatura fantastica, si sedeva sulla sua poltrona ed apriva il suo baule di ricordi…quanti! Le sua mani tremanti sollevavano con reverenziale rispetto i veli del tempo e ne traevano reliquie lontane, che le restituivano la passata felicità. U n giorno, in quel suo frugare diventato ormai smanioso, le capitò fra le mani n libro. Lesse a stento il titolo "Le gioie dell'amicizia" e lo aprì, avvertendo una strana sensazione. Ne uscì un pulviscolo dorato che, complice sua madre, la fece tornare indietro nel tempo. Si rivide allegra e spensierata in un prato verde, con un aquilone in mano. Correva, Fiabolina, e a lei si univano tanti amici, provenienti dai luoghi più lontani, anche loro con un aquiolone in mano, chegridavano al mondo la loro gioia di vivere e guardavano in alto, verso il cielo, presi dalla voglia di volare. Poi Fiabolina si trovava al centro di quel prato irradiato dal sole, il cinguettio degli uccelli faceva da sottofondo ad un momento di gioia sincera e i suoi amici la circondavano.

Il cerchio si trasformava, come per incanto, in una spirale colorata di mani, di volti, di corpi felici e Fiabolina, osservando il suo aquilone, sentiva esplodere dentro di sé le gioie dell’ amicizia. Perciò lasciava che il suo aquilone vagasse libero nel cielo e tutti i suoi amici la imitavano, conquistando la loro libertà. Poi si regalavano una risata argentina, che raggiungeva i posti più lontani. Lei non era più Fiabolina, ma tutti quelli che le stavano intorno, perché "Non è quello che io sono che conta, ma quello che noi siamo, perché solo l’amore libera dai limiti".

Anche questo pensiero era tratto da un libro letto molto temo prima… Il magico pulviscolo dorato si disperdeva nell'aria e il libro penzolava dalle mani di Fiabolina, che si era addormentata serenamente, accarezzata dal vento suo padre e cullata dalla madre, mentre una manciata di apetali bianchi copriva la sua poltrona... I ricordi custoditi con cura nel baule se n'erano andati con lei, ma il libro no, quello era rimasto; era la ricca eredità di una creatura fantastica e tutti avrebbero potuto leggerlo, correggerlo e continuare a scriverlo… Fiabolina vi aveva lasciato tante pagine bianche.





Autore: Aida Dattola, insegnante nella scuola primaria da 25 anni, laureata in Pedagogia, ha conseguito un master in didattica della lingua italiana.



copyright © Educare.it - Anno VIII, Numero 10, Settembre 2008


Luci a San Siro


La pedagogia della lumaca, ovvero l'elogio della lentezza.


La noia, linfa segreta della creatività



I ritmi sempre più frenetici del mondo contemporaneo hanno determinato un nuovo concetto di tempo: non più una categoria che l’uomo gestisce e utilizza per i propri fini, ma piuttosto un vorace cavaliere oscuro che lo travolge e lo fagocita, destituendolo dal suo ruolo di “padrone” a quello di “servo”. Neppure i bambini sono esenti da questo vortice e sono sottomessi al tempo. Sono oberati da impegni continui e scanditi da orari ben precisi: palestra, corso di musica, gara di nuoto, laboratorio artistico e... così via! Poveri bambini! Costretti a vivere le loro giornate come una frenetica corsa, non hanno neppure il tempo di annoiarsi... Ma sono davvero così felici di rinunciare a quella sensazione di vuoto non riempito che si chiama noia? E questa è davvero tutta deleteria o può addirittura essere considerata un valore?

Al di là delle mie considerazioni personali, determinate da esperienze concrete vissute in età infantile, quando avevo il tempo di annoiarmi e, grazie a questo, potevo far lavorare la mia fantasia per inventare un gioco nuovo o per “costruire” storie, ho cercato di avvalorare le mie idee in proposito facendo riferimento a quelle, più autorevoli, di persone esperte.

Teresa Belton, scienziata inglese esperta di problemi dell'infanzia e dell'apprendimento, per esempio, sostiene che la noia è “la linfa segreta della creatività”. Oggi i genitori sono convinti che impegnare i figli in varie attività pomeridiane extrascolastiche sia propedeutico a una maggiore efficienza futura, ma non è proprio così. Avere tempo per pensare può aiutarli a scoprire meglio ciò che li rende felici. Perciò, ai bambini deve essere lasciato lo spazio idoneo per gestire in modo personale il loro tempo e non avere tutto programmato e gestito dagli adulti. Come sostiene la Belton: “Facciamo dunque i giusti onori alla noia. Questa buona fata che costringe i nostri bambini, sbadigliando, a scegliere ciò che è davvero utile per loro”: avere tempi morti in una giornata già scandita dalle ore dedicate alla scuola e alla normale e indispensabile routine della giornata deve rappresentare, per il bambino, il modo più congeniale per attivare le sue doti creative. Per evidenziare il valore educativo della noia la scienziata inglese cita i racconti dell’infanzia di artisti e scrittori che, avendo avuto il tempo di annoiarsi, sono stati indotti a riflettere sulle proprie inclinazioni e , in futuro, a farle proliferare. Perciò, non si deve “riempire” il tempo, ma far sì che sia il bambino a trovare, nei cosiddetti ”tempi morti” alternative positive alle quotidiane attività.

Anche lo psicoanalista Adam Phillips nel suo libro Sul bacio, il solletico e la noia scriveva che la "capacità di annoiarsi permette al bambino di crescere", perché attraverso la noia egli può riflettere sulla vita e fare le scelte che lo rendono felice. Certo, l’idea del tempo nel bambino è diversa da quello dell’adulto, perciò bisogna fargli comprendere che esistono, durante la giornata, delle azioni che si succedono con regolarità, e tra queste c’è, appunto il tempo in cui può scegliere cosa fare. Pertanto, alla luce delle considerazioni fatte, come insegnante avverto l’esigenza di consigliare ai genitori di non sovraccaricare d’ impegni i loro figli, considerando il tempo un vuoto da riempire a tutti i costi, perché esso deve essere gestito in modo consapevole. I minuti, le ore, i mesi e gli anni che abbiamo a disposizione sono carichi di suggestioni e non possono essere vanificati dai nostri inutili sforzi di renderli sempre proficui. Il tempo è fatto anche di pause, di riflessioni che hanno un loro valore proprio perché ci permettono di dare un significato al nostro cammino, e queste pause hanno un nome spesso utilizzato in senso negativo: “noia”. I bambini, in particolare, hanno bisogno del nostro aiuto per comprendere che occorre avere anche il tempo di annoiarsi per crescere e per progettare il proprio futuro.

Infine, per avvalorare il concetto della positività della noia, non posso non citare il compianto dirigente Gianfranco Zavalloni che, nel suo “Manifesto dei diritti di bimbi e di bimbe”, al primo posto mette il diritto all’ozio, inteso come diritto “ a vivere momenti di tempo non programmato dagli adulti”. Riconosciamo, perciò, ai nostri bambini la libertà di annoiarsi e di vivere momenti di vita autogestiti, in modo che imparino a scegliere ciò che a loro più piace, magari a vagheggiare un mondo fantastico e migliore, a progettare un sogno che potrebbe diventare realtà o, come i poeti dell’antica Roma, fautori dell’otium letterario, a scrivere le pagine più belle di quella straordinaria poesia che è la vita!

copyright © Educare.it - Anno XVII, N. 03, Marzo 2017




Il clima di accelerazione storica del mondo contemporaneo con i suoi ritmi sempre più frenetici e vorticosi ha investito anche la scuola, che spesso non rispetta i tempi di apprendimento dei bambini e li costringe ad una spasmodica corsa, finalizzata al raggiungimento di sempre più incalzanti obiettivi ed alla realizzazione delle più varie proposte progettuali.
L’immagine che emerge è quella di una realtà fittizia, che rischia di essere divergente rispetto alle reali aspettative dei nostri alunni ed ai loro bisogni essenziali.
Il mio professore di pedagogia dell’Istituto Magistrale ci ripeteva spesso un concetto di Rousseau: “bisogna perdere tempo per guadagnarne”, evidenziando che quello che a volte ci appare come tempo perso è in realtà il modo più idoneo per favorire i processi di apprendimento e di crescita degli alunni. A distanza di tanti anni, convinta da esperienze maturate “sul campo”, ho ritrovato nel pensiero del dirigente scolastico Gianfranco Zavalloni una definizione autorevole a quanto da tempo riesco a rilevare nella prassi scolastica quotidiana.
A scuola, soprattutto nella scuola primaria, è necessario bandire la fretta e gli alunni devono avere la possibilità di crescere nel rispetto dei loro ritmi, dei loro modi e dei loro tempi di apprendimento. Il fautore della cosiddetta “pedagogia della lumaca” indica delle strategie didattiche di “rallentamento”, peraltro identificate in una scuola di Bolzano, utili per far vivere ad ogni bambino la scuola come un luogo in cui si cresce in modo naturale e tranquillo.
Perdere tempo a parlare rappresenta la premessa indispensabile per un corretta relazione educativa: non si può prescindere, infatti, dalla reciproca conoscenza e creare in classe un clima sociale positivo è possibile solo ascoltando e conversando con i bambini, conoscendo la loro storia e le loro vicissitudini quotidiane.
I nostri alunni, infatti, non sono materiale amorfo, da trattare in modo indifferenziato e modellare a nostro piacimento… L’ascolto è una delle esperienze più significative, direi fondamentali, della didattica e rappresenta la premessa di quell’empatia necessaria per fare dell’insegnamento una relazione d’aiuto.
Occorre perdere tempo per parlare insieme, nel rispetto di tutti; si deve perdere tempo per darsi tempo, ossia per scoprire ed apprezzare le piccole cose, quelle che magari diamo per scontate, ma che in realtà non lo sono, soprattutto per i nostri alunni, che vivono ogni esperienza con la gioia dello stupore. Ma è importante perdere tempo per condividere le scelte, organizzando a scuola zone di libertà “dove tutti possono sentire la responsabilità di ciò che hanno scelto”, e non solo…..
Si può perdere tempo per giocare, camminare, crescere: il gioco educa alla convivenza civile più di sterili regole apprese sui libri, che non saranno mai interiorizzate perché non vissute; camminare aiuta ad una maggiore conoscenza e alla scoperta del territorio e per prepararci al futuro dobbiamo dare il giusto spazio al nostro presente. Infine, perdere tempo per guadagnare tempo è necessario perché la velocità s’impara nella lentezza.
Il dirigente Zavalloni, grazie all’esperienza maturata in passato come insegnante di scuola materna prima e di scuola elementare dopo, ha delineato una sua “idea di scuola”: partendo dalle riflessioni pedagogiche di Malaguzzi, dalla teoria delle intelligenze multiple di Gardner, da Morin, dalle esperienze didattiche di Lodi e del Movimento di Cooperazione Educativa, arriva alla conclusione che un apprendimento significativo deve passare attraverso tre esperienze:
il gioco
lo studio
il lavoro manuale


Naturalmente, non ci dovrebbe essere una scansione rigida degli orari da dedicare alle discipline di studio, ma piuttosto soddisfare la voglia di conoscenza dei bambini con proposte valide e motivanti. Una classe ideale dovrebbe essere, a suo avviso, composta da un massimo di 16 alunni, sia per favorire il lavoro a piccoli gruppi che per dare spazio alle potenzialità del singolo. Inoltre, sarebbe possibile sperimentare la funzione del tutoring tra pari: il bambino più competente che si occupa del più insicuro, in un clima di collaborazione reciproca.
La scuola, in questo modo, diventa uno spazio di crescita nel quale ad ognuno è consentito di esprimersi senza riserve e nel rispetto dei suoi ritmi, entrando in relazione con gli altri.
Secondo Zavalloni, “la scuola è un concentrato di esperienze, una grande avventura che può essere vissuta come se fosse un viaggio, un libro da scrivere insieme, uno spettacolo teatrale, un orto da coltivare, un sogno da colorare”. A scuola, infatti, si deve promuovere la ricerca, quella vera, che non si avvale semplicemente di un motore di ricerca per reperire informazioni, ma si basa sulla capacità di acquisire informazioni, di confrontarle con altre, cercando anche le persone giuste capaci di fornirle: la possibilità di commisurarsi con le opinioni degli altri e farne poi un nostro “pensiero sintetico” consente di costruire realmente un pensiero critico e di porre le basi per la formazione di una coscienza civica. E’, anche questo, un lavoro lento, “artigianale”, ma con un valore intrinseco determinato proprio dalla costruzione attiva del sapere. I bambini, oggi, fanno ricerche avvalendosi solo del computer ed utilizzando “copia e incolla” per economizzare sul tempo …..ma cosa rimane loro di questo sterile assemblaggio di notizie? La scuola deve offrire ad ogni alunno gli strumenti e gli spazi necessari per crescere e le tecniche di rallentamento sono necessarie per non perdere di vista il valore dell’alunno come persona unica e irripetibile, fatta di emozioni e di sentimenti.
La fretta, si sa, è cattiva consigliera e induce, a volte, i docenti ad assegnare molti compiti per casa per completare i percorsi programmati. Il problema, secondo Zavalloni, non è dato dalla quantità, bensì dalla qualità: se i compiti coinvolgono emotivamente l’alunno e sono piacevoli non sono vissuti come un peso, ma come una piacevole attività di ricerca e di riflessione.
A me è capitato, trattando di poesia, di invitare i bambini ad inventare, senza impegno, a casa, delle filastrocche e di scriverle su foglietti per poi, magari, leggerle in classe. Vedere corrisposta questa semplice richiesta in modo copioso e puntuale conferma il fatto che se un compito piace lo si svolge con amore e non lo si vive come un peso gravoso!
Un’altra osservazione significativa dell’autore è quella della calligrafia: abituare i bambini a scrivere bene (addirittura azzarda un ritorno al pennino e all’inchiostro) è didatticamente importante, intanto perché l’ordine esteriore è proporzionale a quello interiore e poi perché il nostro compito è quello di educare al bello. Così si promuove il gusto estetico e si impara ad amare la vita e la sua bellezza. La bella scrittura, che mi è stata insegnata dalla mia maestra, mi ha sempre aiutato ed è vero che una pagina scritta bene rende piacevole la lettura e ci abitua ad una lentezza produttiva. L’esempio della moviola, utilizzato dall’autore, è calzante per farci comprendere che le riprese alla moviola sono più affascinanti di quelle normali perché ci consentono di vedere tutti i particolari…
Consiglio pertanto la lettura del libro di Gianfranco Zavalloni, che ho trovato molto agevole e significativo, anche alla luce della mia esperienza di insegnante; per far sì che le nuove generazioni non si facciano travolgere dalla fretta ed imparino ad osservare e scoprire il mondo con gli occhi del neofita, con i loro occhi di bambini che sanno ancora esclamare “Oh, che meraviglia!”dobbiamo evitare di spegnere, in nome di una corsa senza significato, la loro sete di conoscenza, che ha bisogno di tempo e di rispetto.
Mi piace sintetizzare la pedagogia della lumaca, ovvero l’elogio della lentezza, con un invito proveniente dalla cultura latina: Festina lente, ossia affrettati lentamente… Per arrivare alla meta non bisogna correre, magari improvvisando, ma impegnarsi senza fretta ed in modo oculato.


Bibliografia:
Gianfranco Zavalloni, La pedagogia della lumaca. Per una scuola lenta e solidale, EMI, Bologna, 2008


Autore: Aida Dattola, insegnante nella scuola primaria, laureata in Pedagogia.


C'era una volta, in un Paese lontano, un re molto cattivo e tanto avido di denaro da costringere anche i bambini a lavorare. Un giorno vietò loro di giocare e ordinò che fosse ucciso chiunque non avesse ubbidito.
Fu un giorno molto triste per le famiglie di quel regno: i bambini spensero i loro sorrisi e si guardarono intorno con occhi malinconici. Il sole, che brillava alto nel cielo, si nascose dietro una nuvola per non assistere a quello strazio.

Il re sembrava non far caso a quanto succedeva e costringeva i bambini a lavorare nei campi, per potersi arricchire ancora di più.
Le strade erano diventate silenziose; non si sentivano più le risate argentine dei bambini che giocavano a nascondino, i giocattoli giacevano nei bauli coperti di polvere... Che tristezza la vita senza i giochi dei bambini! 


Il mago Diritto non sopportò a lungo quella situazione e si presentò a corte. Con il suo fare garbato, ma deciso, disse al re:
-Sua Maestà, io difendo i diritti dei bambini e le assicuro che ogni bambino ha diritto di giocare , perché per lui il gioco è vita e dal gioco impara tante cose.
Il re si mise a ridere.
-Ah, sì- gli disse- cosa può imparare un bambino giocando, se non a sbucciarsi le ginocchia?-
Il mago Diritto diventò serio:
-La invito a far giocare di nuovo i bambini per rendere felice il suo regno.-
Il re aveva già chiamato le sue guardie per farlo cacciare, quando arrivò il giardiniere di corte con le lacrime agli occhi.
-Sua Maestà, mi aiuti, mio figlio sta per morire!-
-Certo- rispose il re- quanto denaro ti serve?-
- No, Sua Maestà, non mi serve denaro... Lei deve soltanto far giocare il mio bambino. Senza il gioco è senza vita ed ha perso il suo sorriso-.
Il mago Diritto guardò il re negli occhi, come per dirgli:
-Avevo ragione?-
E il re, compreso il suo errore, ordinò che tutti i bambini tornassero a giocare.
Le strade del regno si animarono, il sole brillò felice nel cielo e sulle bocche dei bambini tornò il sorriso.
Tutto il mondo fu felice, perché ai bambini di quel regno era garantito il diritto al gioco.






Autore: Aida Dattola, insegnante nella scuola primaria laureata in Pedagogia.




copyright © Educare.it - Anno XI, N. 11, ottobre 2011

lunedì 25 luglio 2016

L'importanza di chiamarsi maestro




In un mondo in rapida evoluzione è normale che anche certe parole vengano fagocitate dai processi innovativi ed accantonate come “desuete”. Dov’era finito il maestro di quella che, in un tempo non tanto lontano, si chiamava scuola elementare? Soppiantato dalla nuova figura del docente, cioè di colui che insegna…Eppure è bastato un recente decreto ministeriale per farlo tornare alla ribalta e per animare un acceso dibattito sulle future prospettive della scuola legate alla sua “riesumazione”.
L’explicatio terminorum è fondamentale per ridefinirne ruolo e professionalità: analizzando l’etimologia del termine “maestro” dovremmo, noi che apparteniamo alla categoria, sentirci orgogliosi di esserlo. “Maestro” deriva, infatti, dal latino “magister” (da magis, di più); in ebraico maestro è “rabbi”, che significa “grande” ed in sanscrito “guru”, pesante di dignità e prestigio…
Il maestro è, dunque, colui che guida, spiana il cammino; un compito delicato il suo, caratterizzato dalla piena condivisione di ciò che insegna. Il vero maestro, infatti, è colui che dapprima cerca di migliorare se stesso e poi indirizza il proprio intervento sugli altri.
La storia della pedagogia ci insegna che i veri maestri sono coloro che sanno instaurare un rapporto relazionale significativo con l’alunno e rappresentano per lui un valido modello di riferimento. Per essere maestri occorre, quindi, avere un ideale di vita e, attraverso l’insegnamento e l’esempio, produrre nell’alunno il desiderio di condividerlo. Perché nessun maestro può imporre, ma nel rispetto della libertà individuale, deve solo condurre per mano l’allievo sui sentieri della vita, indirizzare e non coercizzare, condividere e non imporre. Il maestro unico, che ha lasciato una traccia indelebile nella storia della scuola italiana, oggi ritorna, ma, a mio avviso, non può essere considerato un nostalgico ricordo del passato: gli si deve restituire la dignità e la professionalità che ha sempre avuto e perché ciò sia possibile è necessario che siano chiare le mete da raggiungere, tenendo conto delle mutate esigenze sociali e, soprattutto, delle richieste educative, urgenti, del bambino.
Chi vive nella scuola e viene a contatto con un’infanzia sempre più problematica e indifesa comprende i cambiamenti che si sono verificati e sa che il modo di “fare scuola “ non può essere simile a quello del passato. Una scuola al passo con i tempi deve necessariamente considerare che, accanto ai cosiddetti “saperi tradizionali”sono necessari lo studio delle lingue, dell’informatica e delle scienze, che l’educazione civica deve avere un ruolo determinante per formare “persone”capaci di vivere in modo positivo nella società e che il sapere non può essere disgiunto dal “saper fare”…
Per garantire percorsi formativi idonei non è più sufficiente il maestro unico “tuttologo”: occorre affiancargli i cosiddetti “specialisti”, che mettano al servizio dell’alunno le loro specifiche competenze. La scuola del “leggere, scrivere e far di conto”, delineata dai programmi del 1955, era valida per quella società ed è lapalissiano affermare che in mezzo secolo di storia la ricerca pedagogico-didattica ha raggiunto nuove acquisizioni. Questo non significa negare la validità del maestro unico, soprattutto nelle prime classi: se ben preparato, egli consente quel processo di identificazione necessario ai bambini per cominciare a rispettare delle regole e per sentirsi affettivamente protetti.
Sono convinta che i maestri che possono fregiarsi di tale titolo esistono ancora e che, anzi, oggi più che mai sono in grado di incidere positivamente sulla formazione della personalità dei bambini.

Fondamentale è sempre la relazione educativa e la trasmissione del cosiddetto “curricolo implicito”, che è il patrimonio personale di ogni insegnante, più o meno inconsciamente proposto agli alunni. Vivere il mondo della scuola con passione, cercando di tenere ben saldi i punti cardine del proprio operare, è la premessa indispensabile per sentirsi maestri a pieno titolo. Avvertire l’entusiasmo del coinvolgimento, la consapevolezza che spesso i bambini ti guardano per scrutare il tuo comportamento e tu non puoi tradirli perché faresti del male a te stesso e a loro; comprendere che anche una parola fuori posto può ferire un alunno ed aver coscienza del fatto che nelle gioie e nelle fatiche di ogni giorno di scuola si realizza un incontro tra anime: questi sono i nostri delicati ed autorevoli compiti. Rappresentiamo dei modelli di riferimento e non dobbiamo mai dimenticarlo: è questa la grandezza del nostro ruolo e l’impegno che ci deve animare è quello di cercare di migliorare sempre noi stessi per rendere migliori i nostri alunni.
La fase critica che investe la nostra scuola rende necessaria una rivalutazione del ruolo insegnante: maestri si può diventare con l’impegno costante, la ricerca e soprattutto la chiarezza degli obiettivi che si vogliono perseguire. Le motivazioni pedagogiche che stanno alla base della rivalutazione del maestro unico non sono state, forse, opportunamente definite, ma chi ogni giorno si impegna nella scuola sa che le ripetute presunte innovazioni hanno demotivato tanti maestri.
Da maestra che opera nella scuola da più di vent’anni e che è nata come maestra unica per poi vivere tutte le novità nella scuola con l’entusiasmo della neofita e a volte la delusione per i risultati non corrispondenti alle aspettative, posso solo augurarmi che questo ritorno al passato sia vissuto alla luce delle esigenze dei bambini. Il nostro ruolo è determinante ai fini della formazione della personalità degli alunni e noi non possiamo prescindere dall’ascolto, dal rispetto dei tempi, dei ritmi e dei modi di apprendimento di ciascun alunno: garantire una presenza stabile è anche utile per creare un clima sociale positivo e disteso, nel quale sia data ad ognuno la possibilità di esprimersi e di sentirsi compreso. La scuola, per espletare al meglio il suo compito, ha bisogno di maestri che lo siano anche di vita, che aiutino il bambino a fare del sapere il mezzo per vivere meglio con se stessi e con gli altri, per costruire una società più giusta e più a misura d’uomo,sempre orientati da alti valori. Più è tempestivo l’intervento, più immediati saranno i risultati. I maestri della scuola elementare, non solo quella di deamicisiana memoria, ma anche quelli di più recente generazione (cito, fra tutti, il maestro Gianni Rodari) sono quelli che insegnano agli alunni a vivere semplicemente con il loro esempio e la loro gioia. Non dimentichiamo che i bambini, anche se sono cambiati, sono sempre bambini e riescono ancora a stupirsi e a fantasticare: non dobbiamo uccidere i loro sogni, la loro voglia di crescere e di imparare, di scoprire e di fare…non dobbiamo dimenticare che le loro tappe evolutive devono essere rispettate senza inutili “bombardamenti culturali”.
La scuola primaria è la scuola dell’accoglienza e del dialogo, dell’approccio al sapere intenzionale e motivato, della socializzazione e della creatività; ha bisogno di guide serene e motivate, che riaffermino la loro dignità nell’azione sinergica con le famiglie, che tanto più ci apprezzano quanto più siamo capaci di far comprendere la dignità del nostro ruolo e il rispetto per il nostro operato.
La storia è maestra di vita e ciò che di positivo ci ha offerto il passato deve essere rivisto alla luce dei cambiamenti sociali con gli opportuni adeguamenti, ma con la precisa consapevolezza che i bambini hanno bisogno di saldi punti di riferimento. L’importanza di chiamarsi “maestro” è, dunque, motivo di orgoglio per chi ancora crede in questo ruolo.





Autore: Aida Dattola, insegnante nella scuola primaria, laureata in Pedagogia.



copyright © Educare.it - Anno VIII, Numero 12, Novembre 2008



















Le parti del discorso


Dal blog “Gufi curiosi”

giovedì 5 maggio 2016

Le parti  del discorso

Per riconoscere più facilmente le parti del discorso abbiamo letto questo racconto  tratto da "Il viaggio di Fiabolina".
 Fabiolina è una simpatica fatina che intraprende un viaggio nel variegato mondo della lingua italiana e grazie al racconto del suo viaggio anche lo studio della grammatica diventa un gioco accattivante  e ricco di fantasia.  


Questa è la storia di Fiabolina

che amava viaggiare ogni mattina:
lei l'italiano voleva scoprire 
e con entusiasmo si accinse a partire.

                                                       Nel regno della morfologia

                 Una comitiva a passeggio


Nel regno della morfologia la fata Fiabolina incontrò

nove signori che passeggiavano per strada, ognuno con caratteristiche diverse e tutti convinti di formare, insieme una bella comitiva. Erano i rappresentanti di varie famiglie che abitavano in quel regno.
Cinque di loro erano variabili come il tempo, cioè riuscivano a trasformarsi come per magia: potevano essere maschili o femminili, singolari o plurali, o addirittura modificare il loro aspetto.  Si trattava del signor Nome , che indicava persone, animali, cose o idee; del signor Aggettivo che si affiancava  al Nome per arricchirlo; del signor Pronome, che sostituiva il suo amico Nome negli appuntamenti meno importanti; del signor Verbo, che indicava un'azione o un modo di essere e del signor Articolo che camminava sempre davanti al signor Nome.  
Gli altri quattro amici, invece, rimanevano sempre uguali, cioè erano invariabili: c'era la signora Congiunzione, che univa frasi o  parole; il signor Avverbio che camminava insieme ai signori Verbo e Aggettivo per meglio precisarli; la signorina Preposizione
che univa parti di una frase;  e la signora Interiezione per gli amici  
Esclamazione, che riusciva  a esprimere sentimenti di gioia, meraviglia e dolore.
Fabiolina era incuriosita dagli abitanti del regno della morfologia  e li immaginava camminare sempre insieme , impegnati in un bel discorso.  




Ecco i nostri regni della Morfologia.... 

















La pedagogia dell'accoglienza a scuola


LA PEDAGOGIA DELL’ACCOGLIENZA A SCUOLA

di Aida Dattola, su www.educare.it (21/12/2010)
 

“Accoglienza” è la parola-chiave della pedagogia contemporanea, perché solo dall’apertura verso l’altro nasce il dialogo e solo attraverso l’abbattimento delle barriere legate ai pregiudizi si può favorire la crescita culturale. In una scuola che sempre più si caratterizza come luogo integrato di formazione è necessario che si avvii un libero scambio di relazioni interpersonali e che si parli di accoglienza a tutti i livelli.

Il dirigente, nella sua qualità di manager, deve essere disponibile all’ascolto attivo con i docenti, per valutarne competenze ed attitudini, per pianificare in modo adeguato l’organizzazione didattico- educativa e per promuovere la crescita degli alunni.
Deve, inoltre, accogliere tutti gli operatori scolastici per definire ruoli ed attività ed interagire con loro in modo proficuo, ma soprattutto deve manifestare la sua disponibilità ad accogliere le famiglie, per avviare quel dialogo interattivo che è la vera premessa di un proficuo progetto educativo, il cui fulcro è rappresentato dal bambino.
Il compito di accoglienza del docente non è circoscritto al bambino disabile o extracomunitario, ma è rivolto a tutti , perché ognuno è una realtà a sé stante, caratterizzata da esperienze pregresse più o meno incisive, da un vissuto personale e da sollecitazioni culturali varie…
“Accogliere” significa amare senza condizionamenti o riserve, significa scoprire che ognuno di noi è un essere unico e irripetibile e questa”diversità” è la vera possibilità di confronto e di crescita, è la vera risorsa da valorizzare.
Per vivere in classe un clima relazionale positivo è necessario accogliere ogni bambino per quello che è.
L’approccio sarà diverso, ma la finalità è comune: garantire ad ognuno la possibilità di esprimere al massimo le proprie potenzialità, nel rispetto della sua libertà, dei suoi tempi, dei suoi ritmi e dei suoi modi di apprendimento. Perché ciò avvenga deve “star bene” a scuola, sentirla come una seconda casa.
E’ importante anche l’atteggiamento: un sorriso, una postura adeguata (tante volte, per parlare con i bambini più piccoli, abbassarsi al loro livello, guardarli negli occhi e far loro capire che siamo con loro). Quanto male possiamo fare ai bambini anche con una parola fuori posto o con un tono freddo e distaccato… No, quindi, all’emarginazione ed al distacco, no alle situazioni che possono accentuare un eventuale disagio…
Ogni bambino merita la giusta attenzione dell’insegnante e dei compagni e ciò può avvenire promuovendo una cultura dell’accoglienza.
Fra bambini è facile creare situazioni di confronto e di accettazione: il gioco, il dialogo, lo scoprire che ognuno ha un talento da esprimere, la possibilità di cooperare insieme per raggiungere un fine comune, il gioco di squadra…
La scuola non è un ambiente asettico, ma un luogo di relazioni umane, nel quale la convivenza civile non si insegna propinando sterili norme di comportamento, ma “vivendo” concretamente situazioni sociali che si traducono in comportamenti condivisi.
Arrivare a scuola ed essere accolti dal dirigente con un sorriso, entrare in classe ed accogliere con affetto i bambini e vedere gli operatori scolastici prodigarsi nell’aiutarli a portare lo zaino troppo pesante, sapere che si può, in caso di necessità, rivolgersi a loro per risolvere i piccoli problemi di vita scolastica è il bello della scuola comunità, è la premessa indispensabile per una corretta impostazione dell’attività didattico-educativa, è sentirsi un tassello importante di un mosaico ricco e variegato.
E allora, in questo percorso pedagogico, trova la giusta collocazione la festa iniziale dell’accoglienza, durante la quale si ricevono tutti i bambini in modo gioioso e, in particolare, i piccoli della prima classe, ma la motivazione della festa deve continuare nella prassi didattica quotidiana.Personalizzare l’insegnamento significa scoprire in ogni alunno una realtà a sé stante ed intervenire in modo adeguato per sviluppare le sue potenzialità, per fargli superare eventuali disagi e frustrazioni e per far emergere le sue attitudini.
La classe è uno spaccato di vita, dove si impara che diversi sono i caratteri, le idee, le capacità ed è importante conoscere per capire ed amare.
“L’uomo che respira amore e bellezza è il bimbo che viveva nella gioia anche ieri” sostiene Russell e per vivere nella gioia egli deve sapere che è stato accolto già come un dono nella sua famiglia e che la scuola è il luogo in cui, incontrando altre persone, potrà trovare lo spazio giusto per crescere senza paura di sbagliare , perché ci sarà sempre qualcuno disposto ad incoraggiarlo, a sostenerlo ed a comprenderlo.
Non dimentichiamo che l’autostima nasce dal sentirci amati e rispettati pur con i nostri limiti e le nostre incertezze. 
La pedagogia dell’accoglienza non ha la sua ragion d’essere solo in una società multiculturale e multietnica qual è la nostra, ma in ogni società. Chi, infatti, ha sperimentato nel corso della sua vita il rifiuto, l’indifferenza o addirittura l’emarginazione, comprenderà quanto sia difficile, per un bambino, accettare soltanto la mancanza di attenzione…
Pertanto, una scuola che si proietta nel terzo millennio non può esimersi dal valutare l’importanza di “accogliere”ogni suo alunno, per farne un uomo capace di scelte libere e consapevoli.


La signora Pochecose


Era minuta, graziosa, con i capelli grigi raccolti sulla nuca e gli occhiali appoggiati sulla punta del naso. La mattina si svegliava prestissimo e, dopo aver messo in ordine la sua modesta casetta, innaffiava i gerani sul davanzale, dava da mangiare ai colombi che arrivavano mattinieri a darle il buongiorno e poi si affacciava alla finestra. Di buon’ora passava il sindaco del paese, che salutava cordialmente la signora e, sempre indaffarato, si recava in Municipio a lavorare; poi si vedeva il parroco, che andava a celebrare la prima messa e aveva sempre una parola buona da regalarle, e lei ricambiava con un gesto affettuoso e rispettoso, baciandogli la mano. Intanto arrivavano i bambini, che si recavano a scuola accompagnati dalle loro mamme, e la signora Pochecose augurava loro una buona giornata. Sorrideva, la signora, perché i bambini le piacevano tanto e le rallegravano la giornata. Ai più piccoli, che a volte facevano le bizze, regalava caramelle e cioccolatini e subito si calmavano. Quindi la signora si ritirava in casa e dava inizio al rito pacato della sua giornata. Apriva il cassetto di un mobile antico e tirava fuori forbici, ago, filo, metro e un pezzo di stoffa. Appoggiava tutto sul tavolo e, ripetendo mentalmente il consiglio di sua mamma”Cento misure e un taglio”, misurava e rimisurava se stessa e la stoffa, finchè si decideva a tagliare. La signora era una brava sarta, anche molto creativa. Infatti, disegnava da sola i suoi modelli e li riproduceva così bene che tutti, poi, la domenica, quando indossava i capi che aveva realizzato, le facevano i complimenti.

Poi preparava qualcosa da mangiare e, giunta l’ora di pranzo, apparecchiava con cura la tavola e si sedeva da sola, gustando il cibo, che per lei rappresentava un dono del Cielo. Si riposava un po’ e nel pomeriggio usciva per fare qualche acquisto o per visitare la vicina di casa ammalata o per tenere compagnia ad un’anziana signora rimasta sola. La sera cenava e poi andava a letto serena, ringraziando il Signore per averle fatto trascorrere una giornata tranquilla. Nessuno seppe mai i particolari della sua vita; nessuno le chiese mai se si fosse sposata, se avesse dei figli lontani, perché la signora era molto riservata e sembrava venire da un mondo lontano.

Non conosceva l’invidia e il rancore, non sapeva spettegolare, non si adirava mai, era paziente fino al sacrificio ed era silenziosa…Sembrava strana, ma tutti le volevano bene e a lei bastava questo per farla sentire felice. A qualcuno faceva un po’ rabbia la sua incrollabile fiducia nella vita e si chiedeva che senso avesse vivere in quel modo. Dentro di sé la signora sapeva che tutto ha un senso, ed è proprio questo il mistero della nostra esistenza: le cose che a noi appaiono banali sono,in realtà, ricche di significato. Un giorno la signora si alzò come al solito e aprì la finestra del cielo per dare il suo buongiorno agli angeli…Allora capii perché la chiamavano “La signora Pochecose”: semplicemente perché si era sempre accontentata di poco, perchè  aveva capito che in poche cose davvero è racchiuso il segreto di una vita serena, quella che ognuno di noi ha sempre sognato.




Autore: Aida Dattola insegnante nella scuola primaria laureata in Pedagogia.




copyright © Educare.it - Anno XII, N. 8, luglio 2012